Ida Meneghello
Diario di una spettatrice

Aspettando Beckett

Nel film su Beckett di James Marsh con Gabriel Byrne, tra mogli, madri e amanti, il vero assente è proprio lui, lo scrittore irlandese al quale si vuole rendere omaggio

Ho aspettato Beckett come si aspetta Godot, ma lui non è arrivato. E non perché Gabriel Byrne sia del tutto improbabile nei suoi abiti di tweed irlandese, ma perché Beckett non c’è nel film Prima danza, poi pensa, nel senso che lo spettatore non lo intravede nel taglio di un’inquadratura, in un punto di vista spiazzante, in un dialogo paradossale e privo di senso come quelli che avvengono tra Vladimiro ed Estragone in Aspettando Godot.

Non conosco così a fondo la sua biografia per valutare se sia legittima o del tutto infondata la scelta del regista James Marsh di ricostruire la storia del grande drammaturgo attraverso le donne della sua vita: la madre, poi Lucia, la figlia di Joyce, la moglie Suzanne, l’amante Barbara. Ma di una cosa sono sicura: se questa pellicola fosse un piatto presentato a Masterchef, verrebbe bocciato dai tre giudici perché non c’è il sale.

La scena onirica che apre il film, in cui Beckett-Byrne riceve il premio Nobel e subito fugge dal palco arrampicandosi su una scala che lo porta in un antro in cui incontrerà la sua coscienza – e il confronto con il proprio sé è il fil rouge di tutto il film – faceva sperare che il paradosso e il grottesco che provoca la risata del pubblico fossero le cifre stilistiche scelte da Marsh, in sintonia con le atmosfere care al drammaturgo di Dublino. Niente di tutto questo: il racconto si appiattisce subito nel ritmo lento, a tratti noioso, di un biopic che non riserverà allo spettatore alcuna sorpresa.

Peccato, perché anche il titolo, oscuro per chi non conosca Godot, lasciava intravedere un’idea, un messaggio. La frase viene pronunciata da Estragone in riferimento a Lucky, il servo che Pozzo maltratta strattonandolo con una corda al collo: “Potrebbe magari prima ballare e poi pensare?” E Pozzo replica “Ma certo, niente di più facile. Del resto, è l’ordine naturale”. L’ordine naturale delle cose in un dialogo sconclusionato com’è in apparenza tutto quello che accade nel teatro di Beckett. Un teatro che porta sulla scena la perdita di senso nella vita dell’uomo contemporaneo, un tempo sospeso tra l’andare e il fermarsi (secondo molti critici il nome Godot nasce da go, andare, e dot, fermarsi, in inglese dot è il punto che chiude la frase), la frustrazione che tutti viviamo quando non abbiamo il coraggio di scegliere, e intanto il tempo scorre in chiacchiere inconcludenti nell’attesa di qualcosa che non arriverà mai e neanche noi sappiamo cos’è, proprio come fanno Didi e Gogo in Aspettando Godot. Ma tutto questo nel film di Marsh non c’è, non c’è il mistero, non c’è la meraviglia.

La meraviglia c’era invece nel film di Riccardo Milani Grazie, ragazzi in cui uno straordinario Antonio Albanese metteva in scena proprio il capolavoro di Beckett facendolo recitare da un gruppo di giovani detenuti, rievocando così ciò che era avvenuto davvero quando l’opera era stata rappresentata davanti agli ergastolani del carcere californiano di San Quentin. Chi più di un detenuto può comprendere il senso dell’attesa senza fine di qualcosa che non avverrà? L’attesa che rende fratelli anche chi vive nel carcere metaforico della nostra normalità quotidiana.

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