Nadia Tarantini
Per denunciare la violenza di genere

Una piccola radice

«Perché quei gesti innocenti ti fanno tanta paura? Perché oscurano l’affetto, l’ammirazione, l’inizio della tua civetteria infantile?»

Una piccola radice, neanche si vede nella terra delle tue giornate di bambina. Ci inciampi ma subito ti rimetti in piedi. Una parola. Un gesto che per un attimo interrompe il tuo giocare, il tuo ridere il tuo pensare per conto tuo. Magari il
tuo piangere, che non è un capriccio come pensano loro.

La terrazza invasa dal sole, devi strizzare gli occhi. Lui è un cugino di tuo padre, lo ammiri perché ti sorride, e segue ogni cosa che fai. E quando si piega verso di te, si accuccia alla tua altezza, tendi la schiena e alzi la testa. La sua ombra adulta ti permette di guardare il cielo. E mentre sei li, incantata, ti stringe e ti sussurra qualcosa nelle orecchie.

È sempre la stessa terrazza, e tu pattini da una parte all’altra, non sei più una bambina. Dicono che da piccola ti piaceva inventare canzoncine correndo attorno ai tavoli…tu non te lo ricordi, ma forse il piacere del venticello che la corsa sui pattini muove nei tuoi capelli è lo stesso. Lui è il tuo cugino grande, un ciuffo spavaldo sulla fronte. Lo ammiri perché quando parla loro lo ascoltano attenti. E poi è bello. A te non parla, ti guarda soltanto, e quando nel giro dei pattini gli passi vicino, ti afferra alla vita, ti fa cadere, ti rialza a un centimetro da terra, e sussurra.

Perché quei gesti innocenti ti fanno tanta paura? Perché oscurano l’affetto, l’ammirazione, l’inizio della tua civetteria infantile? Perché quella vicinanza troppo stretta dei corpi ti provoca un disgusto, lo stomaco si accartoccia?

Passano molti anni, anzi decenni, prima che ti ricordi di quella bambina che correva attorno ai tavoli, che era allegra e poi, ti ha detto tua madre, è diventata una “musona”. Prima che in una confusione di memorie, lampi di un puzzle che non volendo i parenti offrono alla te adulta, ancora lampi e deduzioni che le terapie corporee e mentali aprono – improvvisi dolori fisici affanni sogni chiarissimi e terribili – tu acquisisca certezza che prima di tutto sei stata abusata quando eri troppo piccola per ricordartelo e tantomeno per capire quello che stava succedendo.

Era una bambina gioiosa che correva attorno ai tavoli inventando canzoncine, muovendo capelli biondi nella sua corsa. Poi una nuvola scura ha coperto quei bagliori dorati, arrivava da appena un metro e mezzo sopra di lei, era di casa. La bambina rimane bloccata, non sa distinguere le carezze che ha ricevuto prima, da quel gesto incomprensibile che l’ha confusa. Una confusione che si ripeterà più volte nella sua vita, quando una persona che le è familiare – che a volte ama – compirà un gesto che il suo corpo rifiuta, ma che la mente non riesce a decodificare, permettendole una reazione vitale. Guarda e non riconosce, si scosta e si riavvicina. Lui diventa gentile, si scusa. Lei si sente in colpa. Le ingiunge con occhio fermo di non dire a nessuno quel che è appena accaduto fra loro. Se lo dirà li separeranno, se parlerà sarò cattiva. Le raccomanda di fare la brava.

La radice dell’abuso cresce negli anni, insieme a te. Si alimenta di gesti che appaiono banali nel mondo in cui vivi. Quello sconosciuto che s’è appiccicato al tuo sedere nell’autobus affollatissimo quando avevi sedici anni, suscitando le urla di una donna che ti sottrae al contatto, ti fa sedere accanto a sé spodestando il suo vicino di posto. Lei dice all’uomo parole che non capisci, che ti fanno vergognare perché tu, quello che ti è successo, ancora una volta non lo sai. Cresce e cresce, la radice, con certe battute che ti fanno arrossire, con la paura che ti prende in certi vicoli di notte, se avverti un certo disprezzo in parole usate con condiscendenza, se ricevi una spinta, uno schiaffo, se il tuo corpo rifiuta qualcosa e la tua mente entra in una paralisi, se non riesci a reagire ad un’aggressione verbale. 

La bambina dai capelli biondi, che è restata dentro la donna adulta, consapevole, sente un disagio profondo ogni volta che vorrebbe dire di no, che dovrebbe rifiutare un gesto o una parola che l’offende   – e se lo deve dire ad una persona che ama o che ha amato, si sente in colpa e rientra nell’antica confusione, ci vogliono anni, a volte decenni – per distinguere nella confusione se stessa e l’altra persona, la rabbia vitale e la mortifera sensazione di non farcela. Di non essere brava.

Ora sei più che adulta, la tua vita si avvia alla conclusione. La piccola radice è diventata un albero pieno di rami. Si sporgono verso la realtà che ti circonda, te la fanno interpretare. Quell’attrice che nel film simula un balletto di fronte alla violenza del marito – non sta forse cercando un modo creativo per trasformare il blocco di mente-corpo che la umilia?  Sono ancora io, si dice l’abusata, che posso scegliere come reagire – per non aggravare la situazione, perché in fondo è un poveraccio e mi vuole bene, perché dove vado senza di lui. Ora non sei più sola a cercare di capire, tua madre non può più dirti che sono fissazioni le tue, intorno crescono radici diverse, nasceranno alberi protettivi che tendono i rami ad incontrarsi.

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Questo racconto è parte di una campagna a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla
#unite #rompiamoilsilenzio


La fotografia è di Deborah Raimo.

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