Ida Meneghello
Diario di una spettatrice

Enea e la famiglia-clan

“Enea”, il secondo film di Pietro Castellitto, non è un manifesto generazionale ma il ritratto di una Roma morta, dove si salvano solo le famiglie-clan

Non è un film generazionale e il protagonista non è neanche simpatico. Ma Enea, il secondo film scritto, interpretato e diretto da Pietro Castellitto passato in concorso a Venezia80, qualcosa da raccontarci ce l’ha e non è una cosa banale. Contrariamente a ciò che sembra, la pellicola non è solo un racconto di trentenni coi soldi nella Roma “bene” delle feste con la coca, le ragazze e i fuochi d’artificio. Le pellicole generazionali non si possono più fare, non c’è niente che oggi identifichi un comune denominatore per quella stagione della vita in cui una volta si pensava di poter cambiare il mondo, quando i Michele Apicella sarcastici e sfrontati ancora ci credevano.

Nella Roma di Enea, così simile alla città arrogante e volgare di Jep Gambardella, non c’è più spazio neanche per l’ironia e la leggerezza, tanto meno per il mito della Grande Bellezza che il nome del protagonista evoca, perché tutto sta andando in pezzi: le palme crollano sulle verande ma nessuno se ne accorge, la rabbia repressa giorno dopo giorno esplode e frantuma specchi e arredi nelle suite più esclusive, la città è una bocca vorace che divora ogni speranza, vista dal cielo Roma pare un campo di concentramento.

Due amici attraversano in una rincorsa fino all’ultimo respiro le macerie materiali e morali di un mondo che sta morendo, inseguiti dai droni che filmano le discese ardite e le risalite spericolate delle riprese volute dal regista. Il protagonista Enea ha il profilo aguzzo come una caricatura di Pietro Castellitto, passa le mattine sui campi da tennis, le sere nel suo sushi restaurant ai Parioli, le notti nelle discoteche dove “le ragazze belle rendono la vita leggera come un treno di nuvole”. Accanto a lui c’è Valentino ovvero Giorgio Quarzo Guarascio, ovvero “Tutti Fenomeni”, cantante qui per la prima volta attore con la passione degli ultraleggeri, che porta lo spettatore sopra le nuvole di Roma e tra i gabbiani.

Che cosa c’è di interessante in una storia in cui non possiamo identificarci nei protagonisti perché il loro modo di sentirsi vivi non è certamente il nostro, e perché la loro vita pirotecnica fatta di soldi-feste-droga li porterà dentro un gangster movie fino a farli esplodere come meteore? A noi interessa un aggettivo che compare nella prima scena, nel dialogo tra Valentino e Marina, la mamma di Enea: “clanico”, da clan, ovvero la famiglia-clan. E certo ci vuole coraggio perché il regista porta davvero in scena la sua famiglia-clan: il padre Sergio diventa il malinconico e arrabbiato psichiatra infantile Celeste; il fratello Cesare impersona il problematico fratello minore Brenno, e c’è pure l’ex fidanzata Benedetta Porcaroli che incarna la bella Eva di cui Enea si innamora.

La famiglia-clan è la vera protagonista del film perché è nella famiglia-clan che tutto ha origine: la rabbia, la sofferenza, l’insoddisfazione, il dolore, l’impossibilità della tenerezza (per tutto il film i baci sono oscurati), e soprattutto la ricerca ossessiva dell’adrenalina che fa sentire vivi.

Così mi sono venute in mente un paio di idee bizzarre: la prima è che in definitiva il film di Castellitto rappresenta plasticamente ciò che Michela Murgia ci ha raccontato per tutta la sua vita; la seconda è che in fondo la famiglia-clan è il “familismo amorale” di Edward Banfield declinato con altre parole, in un’altra epoca e un’altra classe sociale. E queste due idee bizzarre che “Enea” suggerisce allo spettatore mi sembrano interessanti.

In questa contemporaneità senza speranza c’è però spazio anche per altri sentimenti: la gratitudine del paziente di Celeste che lo ringrazia per avergli insegnato a resistere al dolore, la gratitudine del boss Giordano nel ricordo struggente della madre un istante prima di venire ucciso, la pietà di Valentino che esaudisce il desiderio estremo della madre depressa. Enea stesso alla fine ci crede che l’amore è l’unica risposta possibile all’abisso del vuoto che tutto risucchia, l’unica via di fuga dalle perversioni della famiglia-clan. Così i baci oscurati in tutta la pellicola verranno restituiti allo spettatore nel bacio finale tra i genitori di Enea che si librano nell’aria di Roma, come Woody Allen e Goldie Hawn facevano a Parigi in Tutti dicono I love you.

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