Gabriella Sica
Le “Bucoliche” secondo Giovanna Bemporad

Virgilio “politico”

Fin da giovane la poetessa e traduttrice elesse a suo «compagno di vita» il grande cantore di una nuova Arcadia dalla parte dei deboli. Nell’anno del centenario della nascita, esce la sua traduzione del 1939 – tempo di guerra – di quei versi ispirati dalla vita semplice e dall’idea di pace e giustizia

Spunta l’inedita e straordinaria traduzione delle brevi Bucoliche di Virgilio per la mano sapiente di Giovanna Bemporad, autrice indimenticata nelle molte celebrazioni (se ne contano sedici) non ancora concluse di questo 2023, a cent’anni dalla nascita e a dieci dalla morte. Raccolto il testo in modo encomiabile (e immagino con passione e pazienza) una decina d’anni fa dalla giovane Caterina Paoli (che si appresta anche a una traduzione in inglese delle poesie di Bemporad) ora l’opera (che credevo incompiuta se non altro perché ogni testo nel suo operato era sempre modificabile) è pubblicata dalle Edizioni Quattroventi di Urbino, una perla tra le merci del mercato.

Stravagante figura e di raro prestigio questa di Bemporad (o Bembo, come si faceva chiamare per occultare l’identità ebraica), quando, prima della guerra, era solita vagabondare con un viso di latte incorniciato dai capelli neri, come una rondine con quelle sue giacche nere a coda e biforcute, leggendo e incantando ascoltatori e passanti, portandoli verso la poesia. Segnalo qui un mio testo sulla sua vita preparato all’indomani del suo trapasso, in Giovanna Bemporad, poeta controcorrente: https://www.luigiasorrentino.it/2013/01/16/giovanna-bemporad-poeta controcorrente/

Audace e ardente ragazzetta, Giovanna Bemporad, sedotta e ammaliata dal sacro fuoco della poesia, nello scantinato di Ferrara, non si era posta limiti né si era fatta imbrigliare da riverenze e timori di vario tipo, e anzi si era buttata a corpo morto, come fosse il suo compagno di vita, a tradurre versi di Virgilio, il poeta classico della latinità. E non solo il poeta epico dell’Eneide, opera più intonata ai neri tempi in cui viveva, ma anche il poeta bucolico della semplicità frugale suggerita dalla vita dei contadini e pastori arcadi, all’ombra degli alberi, preferibilmente di un rigoglioso faggio, quello appunto delle Bucoliche. Non deve stupire che fosse il 30 dicembre 1939 la data apposta dalla stessa sul manoscritto arrivato a noi, miracolosamente, a più di ottanta anni di distanza. Una data emblematica e già di gravi e oscuri segnali di guerra come se ci si trovasse sull’orlo del baratro europeo e Giovanna, ebrea di Ferrara, dovesse sentire sulla nuca il gelo del terribile spirito del tempo. Traducendo le Bucoliche non faceva infatti che replicare l’idea e l’umore virgiliano nel cantare la vita semplice e soprattutto di pace e giustizia dell’Arcadia, come un nuovo possibile sogno e luogo d’utopia, tanto più mentre incalzava in un’altra direzione la triste vocazione bellica di molti umani d’allora (e anche di oggi).

Un gesto di poesia che, ben lungi dall’essere un modo di assentarsi e disimpegnarsi dalla realtà, come ancora oggi si tende superficialmente a credere, era piuttosto una protesta silenziosa alla brutalità dei tempi, nella vita pubblica e privata, e una proposta innovativa carica di semi per il futuro. Cosa che abbiamo potuto registrare in altri grandi autori, per esempio in Emily Dickinson, che pure viveva al tempo delle Guerre americane di Secessione, e su cui tace, facendone solo cenno per metafore e metonimie. Allora si comprende come l’Arcadia possa diventare così sorgente di una poesia politica. E di questo scrive ampiamente Monica Ferrando in un suo recente bel libro, Il regno errante. L’Arcadia come paradigma politico. Ancora lontano dalle armi e dalla poesia epica dell’Eneide, che avverrà con l’impero di Augusto, Virgilio entra con la sua prima opera nell’archeologia della poesia greca, fino a Teocrito (e dell’arte greca), ed entra anche nel fascino della lingua balbettante dell’infanzia e della poesia originaria per tessere una tela spessa che niente può strappare o rovinare, neppure le guerre civili del tempo e le confische delle terre. Non c’è unità né tematica, né formale e metrica, nelle Bucoliche di Virgilio, ma un divagare di grande e cristallina coerenza in un mondo di dèi e pastori mosso da un’energia profetica di salvezza, come nel cantare la nascita del puer, messianico e promettente nuova figura di bambino auspicio per i tempi a venire, e poi la natura animale e vegetale e la grazia dell’amore perché Omnia vincit amor.

Intanto gli uomini combattono e gli dei se ne sono andati via, ma se ne sente ancora il sacro fruscìo tra le foglie e le cime degli alberi. Virgilio sceglie (dalla radice stessa, ekloge, di ecloghe) e ricerca così i fondamenti della pace e della felicità nel Latium Vetus, una nuova Arcadia trasportata dalla Grecia in terra italica. Canta così l’umile Italia, Humilemque vidimus Italiam, e la perdita di una vita frugale e pacifica, cantata, dopo due millenni, pure da Pasolini e da chi sta dalla parte dei deboli e degli inermi, dei neonati e delle donne, con un moto innovativo e non nostalgico o volto indietro. E comunque un poeta trova la sua Arcadia se vuole sopravvivere e fare della sua poesia anche un’azione, un gesto.

Giovanna (nella foto accanto) riporta a noi tutto questa gioia dell’origine che è l’Arcadia cantata con una lingua che non ha niente di nobile o sublime ma è quotidiana, sobria e perfino disinvolta, a volte perfino popolare, non vuole gonfiare il tono ma portarlo alla parlata comune, tramata di echi sonori e mitici che vengono da Tasso, Foscolo e Leopardi. E ne fa una vivace poesia di ribellione nei tempi grami e mercificati del suo e del nostro tempo, una poesia appunto politica aperta ai giovani. E nello stesso tempo porta nuova linfa alla lingua impoverita dell’Italia. Ha parlato di sacrificio della propria poesia, ma in realtà le bastava quel mannello di poche poesie, intitolato Esercizi. Con il suo spirito di indipendenza a oltranza possiamo pensare che ha fatto proprio quello che voleva fare. E infatti mi diceva che anche Leopardi aveva scritto poco, come lei, oltre ad avere come lei la gobba. Ora bisognerebbe ripubblicare gli Esercizi, il suo unico splendido libro di poesie da far leggere ai giovani che spesso rifiutano per partito preso quello che considerano vecchio e passato.

Ho parlato spesso con Giovanna al telefono, magari di notte, dopo faticosi appuntamenti telefonici. Ricordo le sue belle parole sull’amica Cristina Campo (unite dall’amicizia e dallo stesso gusto della perfezione), su Elio Pagliarani (suo giovane e incantato discepolo), su Camillo Sbarbaro (che ha scritto, mi diceva, anche lui un solo libro), su Ungaretti (amico e testimone di nozze, affini in nome dell’endecasillabo) e, più di tutti, su Pasolini. Diceva di averne compreso subito il valore e di aver rinunciato a ogni competizione e infine di avergli “ceduto il passo”. Grande grazia di Giovanna! Una volta devo averle chiesto di darmi poche parole per definirsi. Lei mi disse queste che al momento trascrissi: «Non ho avuto mai giovinezza né adolescenza, non ho dato importanza a quella che gli uomini chiamano vita, ma alla ricerca della parola giusta. Questa è stata la mia unica ragione di vita».

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