Danilo Maestosi
All'Istituto Cervantes di Roma

Pedro Cano a teatro

Torna in mostra l'arte di Pedro Cano, artista spagnolo a lungo attivo in Italia. Nei suoi acquarelli, la memoria delle rovine greche sulle due sponde del Mediterraneo. Un miscuglio di memoria e speranza di pace

Che bella sorpresa il ritorno a Roma di Pedro Cano, dopo un’assenza di quasi trent’anni. Lo spazio di un paio di generazioni che è minaccia d’oblio per un pittore come lui ancorato alla concretezza della figura e alla magia astratta del colore, approcci di tradizione che il sistema modaiolo dell’arte ha espulso dagli orizzonti del contemporaneo. Scheggia di un passato scomodo e ingombrante in una capitale come la nostra, così ripiegata sullo sfruttamento usa e getta delle sue calamite turistiche, così appiattita sul calvario e sulla cronaca minuta dei suoi cronici squilibri e delle sue insufficienze da aver smarrito l’orgoglio identitario della sua storia culturale, ammutolito il fascino unificante dei suoi tesori stratificati.

È questa anima universale, nascosta e tradita di Roma che Pedro Cano, spagnolo nato nel 1944 a Blanca, una cittadina della Murcia, ha scoperto e iniziato ad inseguire come fonte di continue rivelazioni, da quando alla fine degli anni ‘60 arrivò qui come borsista per poi stabilircisi, casa e studio ad Anguillara, e gettare le basi di una solida carriera coronata al rientro nel suo paese da premi e riconoscimenti da maestro di prima fila. Trovando la chiave per penetrarne e tradurne il mistero, senza lasciarsi abbindolare dal canto di sirene della sua bellezza, proprio nella pittura.

Il dominio di una tecnica, difficile e sempre meno usata, che libera l’immediatezza delle impressioni e dei pensieri in fuga ma non perdona errori e ripensamenti, come l’acquarello. Uno sguardo fluido ed assorto con cui si è concentrato ad interrogare paesaggi, rovine, monumenti, come se li vedesse per la prima e per l’ultima volta. Nella concentrazione della solitudine. Disabitati. Ma impregnati di tracce di esistenze. Immersi nel silenzio del tempo che ha trasfigurato forme e architetture come ogni manifestazione di vita, ma allo stesso tempo ne ha cristallizzato l’essenza ideale in una parvenza d’eternità che appartiene alla fibra dei desideri e dei sogni. A volte dei fantasmi, come quelli che Platone intravedeva dal fondo della caverna.

Dopo tanti anni temevamo di aver perso l’accesso a questo modo così personale di rivisitare il mondo antico e gli echi, la capacità di narrazione che ancora è capace di sprigionare al presente. E invece, a dissipare questi dubbi, ecco di nuovo Pedro Cano qui a Roma, qualche ruga in più, ma lo stesso sorriso, la stessa pacata voglia di dire e di dirsi, con una mostra che segue le stesse rotte di contemplazione e stupore. Rese più consapevoli e intense da una pratica ininterrotta di nomade che continua a riconoscersi cittadino del mondo. Grato a Roma che gli ha aperto gli occhi e la mente. Dove ritrova amici, ricordi e ammiratori, ma rischia ora il confronto con un pubblico più giovane, ammalato di tecnologia e maladdestrato che non lo conosce e potrebbe non adottarlo tra i suoi avatar.

Una ragione in più per segnalare come evento da non perdere questa occasione, organizzata dall’Istituto Cervantes, che ospita fino al termine di gennaio nella sua splendida sede, al numero 91 di piazza Navona, due vetrine di fronte alla fontana dei Fiumi di Bernini, un campionario di lavori sull’archeologia dedicati ai teatri greci e romani. Siti che Pedro Cano ha visitato nei suoi viaggi lungo le sponde del Mediterraneo. Sedici puntini sulla mappa che registra all’ingresso i suoi andirivieni da un paese all’altro del Mediterraneo, quel ponte tra Oriente e Occidente di cui Cano si sente figlio, fratelli tutti quelli che hanno condiviso e condividono l’esperienza di quelle radici in comune, anche se hanno dimenticato, dimenticano di trovarci la continuità della pace.

Sedici teatri, sedici versioni dello stesso modello a conchiglia inventato in Grecia, ognuna diversa dall’altra, sopravvissute o recuperate ai danni delle guerre, dell’abbandono, del tempo. Spazi dove ancora si fanno spettacoli e in quel riesumato rito di comunicazione e di scambio nato in origine per raggiungere tutte le classi, per guidare anche gli analfabeti oltre la soglia della parola scritta, che trattengono la meraviglia dell’abbandonarsi al piacere e alla meraviglia delle narrazioni, dei colpi di scena, del pianto e del riso, della musica, della danza, del canto.

Un rumore di fondo di cui volta per volta Pedro Cano si è messo in ascolto, cambiando abito, da turista a spettatore, da spettatore a regista e cantastorie lui stesso. contemplando il riemergere dei suoi ricordi di vita nei riflessi di quelle pietre corrose e adattando ai suoi umori anche i mutamenti dei suoi punti di osservazione. Due bussole convergenti a orientare gli schizzi e gli appunti da cui ha poi tratto quei quadri più grandi che ora ci mostra. Il desiderio di approdo e il senso di lontananza da quello che stava osservando.

È questo sdoppiamento a infondere alle sue visioni più riuscite l’impronta liquida di miraggi, come quelle chimere di oasi che appaiono a simulare una tregua a chi sta attraversando un deserto. Ecco lo spettacolo del teatro di Alessandria d’Egitto condensato nel biancore di una serie di colonne che spuntano in primo piano e poi si e si allontano in sagome sfumate rossastre rossastre come attori che spariscono dietro le quinte dell’orizzonte.

Ecco il teatro di Cartagena, un letto di gradoni semi cancellato dal torpore lattiginoso del sole che si addossa agli archi, alle volte, alle coperture della scena come sprofondasse in un cuscino di architetture in rovina verso il sonno o il delirio. Ecco il teatro libico di Leptis Magna apparire e sparire dall’alternarsi di colonne e di vuoti in un gioco di rifrazioni che abbraccia e nasconde il mare là dietro. Ecco il teatro di Taormina precipitare in una bruma incerta tra il tramonto e le ombre della notte che inghiotte come un punto di riparo irraggiungibile la seduzione del golfo là sotto e delle montagne alle spalle.

Ecco il teatro di Malaga svanirci sotto gli occhi per infrangersi contro le mura della città incendiate dall’assedio di un sole minaccioso e improbabile. Ecco l’imponente fondale del teatro di Palmira sollevarsi col suo ricamo di penombre come un disegno poggiato su una nuvola che sta per sciogliersi nell’aria. Era ancora visitabile quando Pedro Cano si è fermato ad ammirarlo. La Siria non ancora dilaniata da un dilaniante conflitto per bande, quella oasi di città di pietra e di marmi fiorita tra i sassi del deserto non aveva ancora subito le devastazioni dell’Isis. Un presagio da Cassandra. Come ogni viaggiatore nel tempo in ogni suo quadro Pedro Cano trasporta la dolorosa certezza dei un furto che il suo occhio indiscreto sta commettendo, la nostalgia di una perdita inesorabile che sta per consumarsi. E che in molti luoghi, ormai teatri di guerre senza fine, si è consumata in un bagno di sangue.

Ma è regola sacra del teatro che lo spettacolo debba comunque andare avanti. Magari indossando i travestimenti più morbidi del melodramma o del sogno. Come nella malinconica inquadratura che ci riporta a Roma, in quel teatro a ridosso del porto di Ostia Antica fatto costruire da Augusto, riesumato da anni per un cartellone estivo di alterna qualità ma di buon richiamo turistico.

Della struttura antica resta in piedi ben poco. Un piccolo podio rialzato incorniciato dai pini. Quanto basta per appagare un pubblico in cerca di distrazioni, sollievo dal caldo e qualche squarcio di fantasia. Un simulacro anche quegli spettatori, che il pennello di Pedro Cano evoca in primo piano quasi una citazione a sfottò, in una fila di colonne impettite, sagome senza espressione senza rughe, come le ballerine in peplo dei filmoni da serie B di Cinecittà negli anni del boom.

Niente a che vedere con la folla che applaudiva entusiasta la rielaborazione delle Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar messa in scena da Maurizio Scaparro tra le rovine della villa dell’Imperatore alle porte di Tivoli. Giorgio Albertazzi a interpretare Adriano, Pedro Cano chiamato a disegnare i costumi e a suggerire come e dove sistemare palchi e tribune.

Un’esperienza fine anni ‘80 rievocata in un capitolo posto in appendice alla mostra. I bozzetti degli abiti per protagonisti e comparse. accennati con pochi abili tocchi. E un campionario di piccoli schizzi ad acquarello sui quali l’artista ha fissato per serbarne il ricordo gli scorci dei ruderi che più lo avevano colpito. Tra tutti il teatro marittimo, quello stupefacente mosaico di colonnati e architetture che decorava un isolotto che Adriano aveva scelto come salotto da ozio e palco per piccoli spettacoli privati. Un sogno di colonnati, arcate, riflessi, trasparenze che Cano ha dipinto come un moltiplicarsi di rifrazioni e di ombre, rimontando a mosaico i suoi appunti con la leggerezza spavalda e perplessa presa in prestito a quell’imperatore, troppo colto e raffinato per sfuggire al disprezzo e all’oblio dei senatori senz’anima che governava.

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