Raoul Precht
Periscopio (globale)

La guerra di Gadda

A chiusura dell'anno gaddiano, con le celebrazioni dedicate al cinquantenario della sua morte, cerchiamo di cogliere il segreto del suo successo che affonda, forse, nel trauma della Prima guerra mondiale

Mi sono spesso domandato negli ultimi tempi a cosa si debba il fascino che esercitano su di noi certi scrittori che si sono ritrovati, da giovani o giovanissimi, ad affrontare quell’assoluto disastro che fu la Grande Guerra. Può certo giocare un ruolo il fatto che in letteratura, come nella vita, spesso si è in conflitto con i padri e si ricorre, venerandoli, ai nonni, il che porta la mia generazione, per esempio, ad amare follemente i vari Trakl, Apollinaire, Owen, Achmatova e così via, e magari un po’ meno i poeti dell’ondata successiva, nati negli anni Trenta e Quaranta. Ma non sono certo che si tratti solo di questo, mentre mi pare sempre di più che proprio l’esperienza deflagrante della guerra, combattuta o no, vissuta da interventista o da pacifista, agognata o subìta, sia un quid dirimente, che cattura immediatamente la nostra attenzione.

Tra gli scrittori che questa esperienza hanno vissuto e poi anche documentato, c’è, come tutti sanno, Carlo Emilio Gadda; e mi sembra giusto dedicargli quest’ultimo contributo del 2023, già in colpevole ritardo rispetto alla celebrazione del cinquantenario della morte, avvenuta a Roma il 21 maggio 1973. Ma il fatto è che tutto quest’anno è in realtà il suo anno, ed è in particolare l’anno del Gadda guerriero, del Gadda belligerante frustrato, se si pensa che il 2023 è stato inaugurato dalla riedizione ampliata per Adelphi, a cura di Paola Italia, del fondamentale Giornale di guerra e di prigionia.

Ci si è chiesti anzitutto se si tratti di un giornale nel senso francese di journal, più o meno intime, o non piuttosto di un diario di guerra più, come avrebbe detto Michel Tournier, extime, cioè più rivolto verso l’esterno, a dare conto dei fatti spiccioli di un conflitto che all’epoca era la guerra mondiale per eccellenza, la Grande Guerra, qualcosa di cui non si era mai visto l’uguale. Forse si tratta di una commistione fra i due, o di un lento trapasso dall’uno all’altro: in ogni caso Gadda vi accoglie sia confessioni del tutto private, con tanto di autoflagellazioni di ogni tipo – spicca soprattutto il timore di essere inadatto al ruolo di ufficiale –, sia considerazioni, talvolta feroci, sull’andamento del conflitto, che svariano, nella denuncia ripetuta più volte e con crescente scoramento, dall’incapacità dei comandanti alla viltà dei commilitoni.

Nel Giornale Gadda si concentra su fatti occorsi in un lasso di tempo ben preciso, che va dal 24 agosto 1915 alla fine del 1919; dei sei quaderni originali, uno (il terzo, dall’ottobre 1916 all’ottobre 1917) può ormai considerarsi definitivamente perso, mentre gli altri – fino a quest’ultima sistemazione – hanno avuto una storia editoriale complessa e per nulla lineare. Per un’edizione davvero definitiva si sono dovute attendere non solo la morte di Gadda, ma anche la scomparsa di Alessandro Bonsanti, l’amico poeta al quale Gadda aveva affidato i manoscritti specificandogli che non erano destinati alla pubblicazione. Gadda, in effetti, se ne vergognava un po’, e non tanto di quanto aveva scritto, quanto del ruolo ancillare che nel conflitto gli era toccato in sorte, a dispetto dell’entusiasmo e delle aspettative iniziali. E tuttavia, già nel 1955 Bonsanti aveva pubblicato, con il beneplacito sia pur riluttante dell’autore, il secondo, il quinto e il sesto quaderno; dieci anni più tardi, era stato poi Gian Carlo Roscioni, il biografo di Gadda, a pubblicare un’edizione già più rigorosa, aggiungendo il primo quaderno, ma anche accogliendo qualche autocensura di Gadda volta a impedire l’identificazione di talune persone. Restava da pubblicare il quarto quaderno, importante, perché tratta della disfatta di Caporetto e della deportazione di Gadda in Germania, prima a Rastatt e in seguito a Celle. Bonsanti lo pubblicherà solo nel 1991 per Garzanti, e l’anno dopo Dante Isella lo inserirà fra le opere complete di Gadda.

L’esperienza bellica, come sappiamo, non è solo appannaggio del Giornale: ad essa fanno riferimento anche il racconto “Manovre di artiglieria da campagna”, del 1928, che confluisce tre anni più tardi nella Madonna dei filosofi, nonché i cinque testi “Elogio di alcuni valentuomini”, “Impossibilità di un diario di guerra”, “Dal castello di Udine verso i monti”, “Compagni di prigionia” e “Imagine di Calvi” che formano la prima parte del Castello di Udine (1934). Beato chi riesce a scrivere mentre è al fronte, sembra dirsi Gadda, beato chi – come Apollinaire, tanto per citarne uno solo – non vede svanire la propria ispirazione. (Gadda è in questo forse più dalla parte di Cendrars, che aveva sancito una separazione netta fra il momento di scrivere e quello di combattere.) E beati i Comisso, gli Stuparich, i Remarque, e tanti altri che pure Gadda ammira; ma quanto a lui, scrive in quella rielaborazione letteraria a posteriori del Giornale che è Il castello di Udine, avrebbe “annotato nel mio quaderno anche le banali miserie: alle giornate, per me atroci, dell’ottobre ’17, quelle che furono come la caduta del mio vivere in una vana e disperata sopravvivenza, il mio giornale registra un buon bagno dei piedi fra le sopravvenienti angosce e la muta ottusità delle nebbie: finalmente avevo trovato un paio di gavette d’acqua.”

Di tipo diverso, e ben più diretta, soprattutto nell’esecrazione, la prosa utilizzata nel Giornale; eccone giusto un piccolo esempio: “Scrivo lettere e bestemmio le mosche, altra fra le più puttane troie scrofe merdose porche ladre e boje forme del creato.” O ancora: “Oggi piove schifosamente: un’acqua fottuta, un’umidità boja, una melma al controcazzo.” Ma quello che – al netto delle sue proprie peculiarità caratteriali, che non lo rendono troppo popolare fra i commilitoni – veramente lo disorienta e lo deprime, e contro cui, pur nella sua qualità di giovane ufficiale, non riesce a fare granché, sono da un lato la disorganizzazione e dall’altro il menefreghismo, ovvero l’impreparazione degli alti comandi che va a braccetto con il “si salvi chi può” pauroso e impaurito delle truppe (“…la patria, o bestia porca,” ammonisce Gadda, “non vuole la tua vita per il gusto di annoverare un valoroso di più: vuole la tua costante vigilanza, il tuo pensiero, la tua riflessione, l’analisi, il calcolo”). Le esperienze di guerra diventano anche un’occasione di fare una radiografia del popolo italiano, con l’indolenza, l’approssimazione e l’impostura che lo caratterizza, e soprattutto con il suo “egotismo cretino”, che spinge per esempio il soldato Musizza a rifiutare di radersi i capelli (misura necessaria a prevenire i pidocchi) in nome di una superiore libertà. La stessa che mutatis mutandis abbiamo sperimentato ai tempi del Covid: la libertà dei cretini, appunto, che poi però mette a repentaglio la vita di tutti.

In ogni caso, eroi o vigliacchi, uomini o conigli, arditi o imboscati, saranno più o meno in centomila, su seicentomila che erano partiti per il fronte, i soldati italiani che non torneranno dalla Grande Guerra. Ma per uno che come Gadda era andato in guerra convinto di poter svolgere una sacra missione, in nome di ideali puri, come il dovere di difendere la patria – nel segno di quel coraggio e di quel sacrificio di cui sarà sfortunato portatore l’amatissimo fratello Enrico, di tre anni più giovane di lui, dal carattere irruento e imprudente (ma di questa perdita, da cui non si riprenderà mai più del tutto, Carlo Emilio verrà a sapere solo una volta tornato alla base) –, il sacrificio di sé sarebbe stato il minimo, mentre i 51 mesi di attesa del nulla (“orribile noia e stufaggine”) saranno una tortura. Nel suo Giornale protesta fin da subito contro Salandra, contro “quello scemo balbuziente d’un re”, contro generali che si rivelano immediatamente “non guerrieri, non pensatori, non ideatori, non costruttori; incapaci d’osservazione e d’analisi, ignoranti di cose psicologiche, inabili alla sintesi”: ma più di tanto, e al di là di qualche sfogo retorico, dalla giovanile irruenza, neanche lui può fare.

Studente d’ingegneria al Politecnico di Milano, affascinato da certi toni e proclami dannunziani e interventisti (anche perché ancora garibaldino nell’animo), Gadda presenta la sua domanda di arruolamento subito, nel 1915, a ventidue anni. Sottotenente, è incorporato nel Quinto reggimento alpini, per partire poi per il fronte con l’89° Reparto mitragliatrici. Sebbene formalmente sul campo di battaglia, sarà rarissimo il suo coinvolgimento nei combattimenti veri e propri: non sarà praticamente mai in prima linea, la maggior parte del tempo la passerà a riposo o in trasferimento da un luogo all’altro, nell’attesa vana e frustrante, fra una scarica di shrapnel e un’esplosione in lontananza, che qualcosa si compia. Numerose, nel Giornale, le annotazioni del tenore seguente: “Ieri fu una giornata di noia, d’apatia, di crisi, di sonnolenza: tutte conseguenze dell’ina zione forzata, della vita da galeotti (rispetto alla mobilità) a cui siamo costretti.” E ancora: “Giorni di noia, di asfissia per la reclusione a cui siamo costretti: in certi momenti abbattimento, paralisi della volontà e del desiderio.”

A compiersi, poi, sarà solo la disfatta, seguita dalla prigionia in Germania.

Dopo aver partecipato, sempre dalle retrovie, alle battaglie sul Carso, in seguito alla vergognosa capitolazione a Caporetto il 25 ottobre 1917 è fatto prigioniero dagli austriaci e finisce in due diversi campi di prigionia, il secondo dei quali è il famoso Cellelager, dove si ritroverà nella baracca 15c – la “baracca dei poeti”, com’era chiamata – assieme a Ugo Betti e Bonaventura Tecchi (si veda anche, a questo proposito: https://www.succedeoggi.it/2018/03/letica-di-tecchi/ nonché, naturalmente, la sezione già citata de Il castello di Udine). L’ordine di ritirarsi, come scrive, l’aveva accolto con uno “stupore demenziale”, che sarà poi la molla per raccontare in modo particolareggiato le sue esperienze. Esperienze che in particolare nel Giornale ci arrivano, proprio come nei Diari di Jünger – unico testo a cui possa essere accostato –, senza alcun filtro, privi di rielaborazione letteraria, di certo grezzi ma con la forza dell’immediatezza.

Ma neanche Gadda, alla fine, troverà il bandolo della matassa; neanche lui, per quanto interventista e patriota convinto, pronto in piena prigionia a riprendere il combattimento (se solo fosse possibile), riuscirà mai a capire il vero perché di quella guerra insensata, di quel “tempo dell’entusiasmo e del dolore”, come scrive a Tecchi, e delle immani privazioni che ha provocato a tutti i popoli europei. Bisognerà aspettare capolavori (peraltro sempre sofferti) come La cognizione del dolore e registrare il passaggio dalla prossimità al fascismo del giovane Gadda al ripudio assoluto dello stesso da parte del Gadda maturo, per trovare una riflessione nuova sull’Europa e sul suo futuro, in cui la sofferenza – il dolore, appunto, e la consapevolezza dello stesso – finisce al centro del destino comune: un destino di popoli ancora e sempre troppo ingenui, facili prede della retorica bellica, volenterosi soprattutto nella sortita estemporanea e nella disfatta. Troppo disponibili, insomma, a imbarcarsi in avventure assurde al richiamo, ammaliante e seduttivo, del dittatore di turno.

 

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