Ida Meneghello
Diario di una spettatrice

Cinema operaio

Michele Riondino debutta nella regia cinemarografica con "Palazzina Laf", un film quasi spietato sulla classe operaia dell'Ilva di Taranto. Un esempio importante di nuovo cinema civile

L’ho già detto, sono prevenuta verso il cinema italiano contemporaneo: poche idee, regie sciatte, dialoghi e attori stereotipati, troppo spesso un déjà vu. Poi succede quello che sta succedendo in queste settimane: il “caso Cortellesi” che nessuno aveva previsto, il film di Antonio Albanese Cento domeniche che ritrova il senso di un cinema civile d’altri tempi e, visto ieri nel primo giorno di programmazione, Palazzina Laf, l’esordio alla regia del giovane Michele Riondino (che avevo classificato nella casella serie tv, considerando le sue prove ne Il giovane Montalbano, Fedeltà, I leoni di Sicilia), film per il quale qualcuno ha evocato La classe operaia va in paradiso di Elio Petri.

Così mi sono presa un altro pugno nello stomaco: con Cento domeniche avevo rivissuto la tragedia di centinaia di migliaia di piccoli risparmiatori traditi dalle banche cui avevano affidato i risparmi di una vita, con Riondino ho scoperto una storia al limite dell’inverosimile ma purtroppo vera, una storia di cinismo, stupidità, incompetenza e cattiveria avvenuta all’interno del colosso dell’acciaio Ilva di Taranto nel 1997. E certo Riondino, che a Taranto è nato, racconta qualcosa che l’ha toccato da molto vicino. Per portare sullo schermo questa storiaccia chiama accanto a sé il “giovane favoloso” Elio Germano e così ricostruisce la coppia di amici del film di Mario Martone. Ma questa volta i due personaggi sono brutti e cattivi, il patto che li lega è infingardo, niente a che vedere con l’amicizia tra Giacomo Leopardi e Antonio Ranieri.

Caterino Lamanna (Riondino) è uno dei tanti operai dell’Ilva di Taranto, grezzo, arrogante, ambizioso, se ne frega del sindacato, è una pedina perfetta nelle mani di Giancarlo Basile (Germano), il potentissimo capo del personale che ha ideato il reparto-ghetto per i dipendenti di cui vuole spezzare la resistenza: è la palazzina Laf, acronimo di “Laminatoio a freddo”, un reparto esterno all’acciaieria dove vengono confinati e mobbizzati ingegneri, informatici, ricercatori, segretarie, quegli impiegati che si oppongono al declassamento contrattuale che impone la qualifica di operaio o il licenziamento. Alla Laf si è pagati per non fare niente, in apparenza un paradiso rispetto all’inferno della fonderia, ma l’umiliazione che cancella qualsiasi competenza e identità fa crollare anche i più forti: c’è chi prega (a recitare il rosario c’è anche l’irriducibile Vanessa Scalera), c’è chi fa esplodere cartoni dell’acqua, chi fa rutti a un telefono muto, chi gioca a ping pong, qualsiasi cosa pur di non impazzire. Tra questa umanità devastata Caterino fa il delatore, spia le mosse dei colleghi e i loro tentativi di ribellione che puntualmente riferisce a Basile. Finché l’incubo non finirà con l’arrivo dei carabinieri e della magistratura e l’inchiesta che porterà al processo e alla condanna dei vertici dell’Ilva. La città è solo uno sfondo per le ciminiere illuminate nella notte, il mare non bagna Taranto come non bagnava Napoli, l’aria piena delle polveri di carbone distrugge ogni speranza, il mesotelioma ai polmoni non perdona, i cani vagano tra i rifiuti, una pecora crolla sulle zampe e muore, Caterino si vede in sogno baciare la statua del Cristo come Giuda.

È un film che non fa sconti e non consola l’happy end. Una cosa non mi è piaciuta: il commento musicale di Teho Teardo, comme d’habitude troppo enfatico e in qualche caso sopra i dialoghi. Ma questo esordio di Riondino, come il film di Albanese, mi riconcilia col cinema italiano.

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