Ida Meneghello
Diario di una spettatrice

Il caso e Woody Allen

Il cinquantesimo film di Woody Allen, "Coup de chance", è un gioco perfetto sul caso e sulla sua ingovernabilità. Con uno sfondo giallo (come nei grandi romanzi di Georges Simenon)

Per chi, come me, ama Woody Allen fin dall’inizio e incondizionatamente, la sua cinquantesima pellicola, Coup de chance (“Colpo di fortuna”) rappresenta qualcosa di più dell’ennesimo film da non perdere. È, secondo me, la summa della sua cinematografia, di ciò che continua a raccontarci instancabilmente dal 1966: è il caso a governare l’universo. Noi pensiamo di poter controllare le nostre vite, il mestiere che facciamo, le relazioni che viviamo, “con gli amori appena nati, con gli amori già finiti” (Jimmy Fontana dixit), ma alla fine scopriamo che tutto è casuale e che non c’è niente da capire. Capiamo solo che tutto il nostro egocentrismo smisurato è senza senso, il nostro affannarci per realizzare le 3S (sesso, soldi, successo) è la corsa del criceto nella ruota, alla fine ci raccontiamo una storia “a proposito di niente”, come dice il titolo della sua autobiografia.

Quando questa casualità assoluta manifesta tutta la sua potenza? Quando le nostre vite si inceppano, si aggrovigliano, quando il delitto spezza il flusso anonimo e prevedibile delle giornate. Questo è il punto: Woody Allen fa nel cinema ciò che Georges Simenon ha fatto nella letteratura, diventa cioè il maestro assoluto di questa narrazione.

Entrambi prolifici, Allen e Simenon, declinano all’infinito questa verità attraverso i romanzi e i film, tanto da offrirci (e beati noi che ce li godiamo!) una perla com’è Coup de chance, in una Parigi di luce rosa e d’oro tutt’altro che cartolina per turisti, ambienti borghesi che grondano ricchezza in ogni dettaglio, vite che non prevedono la casualità nemmeno nello spazio residuale di un caffè. Eppure il caso la farà da padrone fin dalla prima scena, l’incontro casuale tra la bella Fanny e il suo antico compagno di liceo Alain che le confessa il suo amore adolescenziale, e lei, che è consapevole moglie-trofeo di un marito possessivo e senza scrupoli che fa i soldi arricchendo chi è già ricco, può solo arrendersi al caso che gliel’ha fatto ritrovare. Ciò che colpisce, considerando che Woody ha 88 anni, è la perfezione di una regia che non ha perso la fanciullesca freschezza dello sguardo e la padronanza del ritmo che trascina a poco a poco lo spettatore in una storia inizialmente leggera (un tradimento come tanti) e via via sempre più noir di cui niente qui scrivo perché questo film è un delitto non vederlo, 96 minuti di assoluta perfezione.

La grande penna del critico Alberto Crespi ha colto, fin dalla prima proiezione della pellicola a Venezia, la liaison tra Allen e la letteratura gialla, così che i suoi temi ricorrenti (la psicoanalisi, il sesso, l’identità ebraica, il matrimonio, il tradimento, la letteratura russa, il baseball, New York) non sono che la superficie delle storie. Il delitto e la colpa, i crimini e i misfatti sono il vero fil rouge di Allen. Io aggiungo, da fedele sua spettatrice, che il caso è in definitiva il protagonista assoluto di tutta la sua cinematografia. Quel caso in cui il marito Jean Fournier non crede, perché lui il caso lo provoca convinto di poterlo controllare, e che invece gli presenterà il conto nel micidiale “colpo di fortuna” finale.

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