Paolo Ardovino
Un autore da riscoprire

Essere Emilio Praga

Ritratto di Emilio Praga, il padre della Scapigliatura italiana, sempre pronto ad attaccare la convenzioni della lingua e della letteratura. Un devoto di Baudelaire, i cui versi definiva "un’imprecazione, cesellata nel diamante”

“Non mi interessa essere capito / mi interessa essere, capito?”: così il ritornello di una canzone rap di questi anni. A Emilio Praga interessava essere. Essere e basta. Tra un paio di mesi la sua seconda raccolta poetica Penombre compirà 160 anni e ancora la si ricorda come portabandiera in versi della Scapigliatura, e cioè di quel gruppo di letterati e artisti che nella seconda metà dell’Ottocento, per appena il tempo di una generazione, rappresentò il tentativo di frattura più evidente e sfrontata nella letteratura italiana moderna.

Il tratto distintivo della poesia di Praga è da ricercare nel rifiuto, a proposito di generazioni, di mettere in versi una lingua standardizzata (l’ultimo Manzoni), i riferimenti alti, la contaminazione ecclesiastica, gli slanci romantici. Il “Preludio”, componimento-simbolo che inaugura Penombre, è in questo senso esemplare: “Noi siamo i figli dei padri ammalati: / aquile al tempo di mutar le piume, / svolazziam muti, attoniti, affamati, / sull’agonia di un nume”. Quel pronome plurale indica una voce che non è solo autoriale ma anche espressione di un sentimento condiviso. Di una discendenza – non solo letteraria – che si porta dietro una pesante eredità e vuole scrollarsela di dosso.

Più avanti nella raccolta, nella sezione delle “Mezzenotti”, Emilio Praga intitola una poesia “Rivolta” salvo poi dichiarare nella prima strofa: “Stamane io avea gridato al mio cervello: / si chiudano le porte a chiavistello, / il padrone è ammalato e doloroso; / si chiuda la baracca, e vi si scriva: / oggi riposo!”. È la rinuncia a un’assunzione di responsabilità indotta, anche, da una tradizione poetica non riconosciuta. E quando alcuni versi dopo descrive l’incontro con un “un vecchierello tutto avvolto in un lurido mantello”, a dispetto delle richieste dell’anziano che “mi stese la mano, di nuovo sorrise, / E: – sfoga, mi disse, l’immenso furor!”, il poeta non agisce. “E stava lì, sospeso, a bocca aperta / come quando si aspetta uno starnuto”. Il poeta non sfoga il suo furore come altri vorrebbero. Non intende obbedire a una vecchia generazione e sottostare ai suoi giudizi. Si potrà rinvenire qui un’analogia con la rivolta del “giovane ai saggi consiglieri” di Friedrich Hӧlderlin, con la sua battaglia per non vedersi addolcita – l’immagine è sua – un’anima che arde incatenata in un’età di bronzo. “Dovrei quietarmi? Avvincere l’amore / che anela ardendo a più alte bellezze?”, infuria l’autore tedesco, “[…] Solo la lotta, o stanchi, mi è salvezza, / e mi togliete il mio elemento ardente?”. Il diniego a prescrizioni calate dall’alto è lo stesso di Emilio Praga.

La raccolta d’esordio del milanese si intitola Tavolozza (1862), l’ultima, postuma, Trasparenze (1878), ma è Penombre (1864) che stupisce e scandalizza. Della Scapigliatura si ricorda sempre la deminutio di una durata effimera. Tuttavia, potrebbe essere stato proprio questo il suo senso, come di un’avanguardia prima del tempo delle avanguardie. Dopo l’esperienza foscoliana dei sepolcri neoclassici, il poeta scapigliato circonda la sua poesia di elementi cimiteriali guardando all’ironia dell’orrido, ma soprattutto a un’effettiva concretezza del lessico poetico come si vedrà poi fare dai primi del Novecento.

Il modello più volte omaggiato da Praga è il maledettismo di Charles Baudelaire. La sua definizione de I Fiori del male è ispirata e devota: “Un’imprecazione, cesellata nel diamante”. Le prime due quartine di “Vendetta postuma” recitano: “Quando sarai nel freddo monumento / immobile e stecchita, / se ti resta nel cranio un sentimento / di questa vita, / ripenserai l’alcova e il letticciuolo / dei nostri lunghi amori, / quand’io portava al tuo dolce lenzuolo / carezze e fiori”. Questa la quartina iniziale del sonetto “Rimorso postumo” di Baudelaire: “Quando tu dormirai, mia bella tenebrosa, / sul fondo di un monumento in marmo nero / e quando non avrai per alcova e dimora / che una cripta piovosa e una fossa profonda” e questa la terzina che chiude: “ti dirà: a che ti serve, cortigiana mancata, / di non aver conosciuto quel che i morti rimpiangono?” /  – e il verme roderà la tua pelle come un rimorso”. L’aspirazione è cantare, sostiene Praga, “le ebrezze dei bagni d’azzurro / e l’ideale che annega nel fango… […] Giacché canto una misera canzone / ma canto il vero!”. Con buona pace degli anziani osservatori contrariati.

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