Gabriella Palli Baroni
“La ragazza che va in sposa”

Desiderio e visione

«Una musicalità lieve e armoniosa fermata dove il tessuto si trasforma». La raccolta di versi di Tiziana Lo Porto, traduttrice e autrice di graphic novel, è divisa in due parti, una sull’amore, l’altra su memorie familiari, accadimenti e luoghi legati alle “sue” città, Roma e New York

Un libro di versi di Tiziana Lo Porto (Edizioni Sartoria Utopia, Roma 2023), agile e dalla copertina multicolore assai accattivante, è La ragazza che va in sposa, da un bel verso della lirica dallo stesso titolo. La raccolta è suddivisa in due parti, la prima incentrata sul tema d’amore, la seconda legata a memorie familiari, a eventi e a luoghi conosciuti tra Roma e New York, le città dove l’autrice vive e traduce libri o crea graphic novel.

Apparentemente sorridenti i versi, che si snodano tra misure brevi e lunghe fino a 17 sillabe e hanno una musicalità lieve e armoniosa, fermata sapientemente là dove il tessuto si trasforma. Colpisce infatti il passaggio in explicit a un diverso motivo, ora brusco ora sorprendente, perché rovescia in senso quotidiano, negativo o drammatico la situazione sentimentale, la spegne e recide: «per non sentire la tua mancanza / ho creato il mondo // per primo il brasile / ingombrante come te // poi tutte le isole / (ero io) / /poi ho messo il mare dappertutto / e siamo andati a nuotare» (L’anno del terremoto). O ancora: «C’eravamo mancati / tu non mi scrivevi, io non ti cercavo / c’eravamo mancati, mi dici / poi mi guardi / e mi guardi /e basta» (After the summer).

Le poesie hanno un andamento narrativo scandito spesso da iterazioni, anafore e allitterazioni e paiono nascere nel loro incipit da qualcosa che affiora improvviso e si manifesta, evocato, quasi epifanico. La storia d’amore, con i corpi che s’incontrano e si separano, i desideri che si accendono e si spengono, l’immaginazione che smuove e genera figure e paesaggi, l’ironia che attenua la nostalgia e il rimpianto, è viva e sempre inattesa nel suo svolgersi e, forse, nel suo negarsi. C’è molto amore, anche fisico, ma c’è anche disamore, e soprattutto ci sono lontananze e separazioni: «e dio creò la terra / con noi due dentro / poi mise un oceano / e due continenti / per coprire la distanza / tra me che dico ti amo / e tu che dici no» (Sciopero).

Nella seconda parte la tastiera si fa più varia, accogliendo, quasi diario morale e intellettuale, le cose e le persone dell’apprendistato e della formazione: il padre, che le ha insegnato cose semplici e vere, «a frequentare i giardini / e i roseti comunali / a riconoscere le stagioni / dai banchi di frutta del mercato / a distinguere una mela gala / da una stark delicious / a pesare sempre con gli occhi / a non lasciare mai nessuno a mani vuote»; la madre che «scriveva poesie». E inoltre vi sono gli autori dei libri preferiti, di film e musiche, tutti indicati con la minuscola come tutto in quest’opera: Sylvia Plath, Emily Dickinson, George Harrison, Werner Herzog, William Burroughs, non maestri («non ci affidiamo né agli insegnamenti né ai maestri / ci affidiamo alle canzoni / le sappiamo a memoria / tutte», dicono i versi in explicit di George Harrison), ma compagni e, con Emily Dickinson, Bob Dylan e Ariosto i musei e gli orti botanici Cose da venerare. Diario si diceva. Ed ecco apparire, tra sogno e realtà, il cielo di stelle e pianeti, i petali e le rose dei giardini, i fiori bianchi «che sembrano di carta» dell’orto botanico e i bambù, le farfalle atalanta, il gabbiano fermo sulla ringhiera dei fori imperiali, il bar del centro, i silenzi e le urla, la luce naturale e il buio, il mare e i colori, il rosso e il blu, il marrone e il giallo dei ranuncoli, l’arancione e il verde degli steli, e tutto diviene desiderio e visione. Ma diario significa anche istanti e durata, significa tempo quel tempo che percorre queste poesie, che può essere il «senza tempo» dei baci di Una storia d’amore o «il tempo che si sospende per qualche istante» del Tempo interiore, il tempo che si fa struttura poetica e rappresentazione.

Nell’immagine vicino al titolo, “La Sposa” di Marc Chagall, 1950

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