Riccardo Caporossi
Un intervento tra arte e società

Teatro di guerra

Riccardo Caporossi, uno degli ultimi maestri dell'avanguardia teatrale italiana, riflette sull'arte e la guerra. Da Gerusalemme a Gaza. La disperazione di un abbraccio

Sono nato nell’anno in cui è stato costituito lo Stato di Israele. Sono stato ad Amman (Giordania) per replicare in un Teatro uno spettacolo realizzato a Roma con ragazzi sordo-muti, nell’ambito di un Convegno internazionale dedicato alla loro disabilità. In quella occasione ho visitato, nella periferia della città di Amman, insediamenti abitativi in cui vivono palestinesi rifugiati (se ricordo bene dal conflitto del 1967) e ospitati dal Governo Giordano, senza però alcun riconoscimento di legittimità; come se non esistessero, tollerando la loro presenza relegata nel povero agglomerato di tuguri, dove vivono. Siamo stati accolti nelle loro dimore, dove campeggia su una delle poche pareti della casa, pittura, mosaico o arazzo, l’immagine di Gerusalemme, città ideale altrettanto con-divisa da ebrei e cristiani. Israeliani e Palestinesi: destino di Popoli non ancora risolto e ostaggi di efferati poteri di dominio. Ancora prima ero stato a Gerusalemme con Claudio Remondi e il nostro spettacolo “Sacco” per rappresentarlo nell’ambito del Festival Internazionale. Allora non c’erano gli attuali movimenti divenuti organizzazioni governative, purtroppo terroristiche; il conflitto si disputava tra ebrei e arabi. Allora non c’era neanche il muro di blocchi di cemento. Dalla collina del Getsemani, luogo di meditazione, sofferenza e tradimento, si poteva ammirare senza ostacoli, senza indice di conclamata separazione il panorama della Città Santa con il brillio della cupola dorata della Moschea di Omar sulla spianata del Muro del Pianto, così come fu ritratta nei dipinti, mosaici, arazzi che campeggiano nelle case dei rifugiati.

Non sto scrivendo un romanzo, ma ritengo, qui, aprire una parentesi o come dice Flaiano una “paralisi” (termine del resto appropriato per il totale arresto della normalità) una parentesi (il presente del passato) due spettacoli: “Cottimisti” e “Mura”.  Nel 1977 ho realizzato insieme a Claudio Remondi lo spettacolo COTTIMISTI in cui costruivamo, in scena, un muro: vero; con 1000 mattoni, veri. Operai visionari. Altri tempi, per valutare il senso dello spettacolo. Dietro quel muro, manu-fatto vero, apparivano un paio di mani che con l’alfabeto dei sordo-muti lanciavano un messaggio oltre il confine. Alla fine calava una grande sfera di metallo, sospesa tra il pubblico e il muro. Una provocazione. Un suggerimento per abbatterlo. Di lì a 12 anni fu abbattuto il muro di Berlino. Nello spettacolo MURA (2014) Il muro, man mano, viene smantellato per evocare alla fine tutti quei numerosi chilometri di ostacoli da abbattere che ancora oggi sono indice di separazione. Ogni tentativo di comunicare resta bloccato da quella barriera; non necessariamente concreta e reale come un muro, ma eretto con lo stesso miscuglio di odio, paura e mancanza di immaginazione. Lo stesso misero impasto di muri immateriali che separano gli uomini per razza, religione, cultura, ricchezze. Chiusa paralisi.

Allora il conflitto si disputava tra ebrei e arabi. L’inviata italiana del Festival Internazionale confermò la partecipazione  dello spettacolo “Sacco” nonostante il timore sul riscontro del pubblico israeliano: lo spettacolo affronta il duello vittima-carnefice, senza alcuna soluzione, anzi, dopo le continue sevizie subite, l’apparente libertà della vittima, che cerca di affermare la propria identità, viene di nuovo rinchiusa dentro un altro sacco, pronti vittima e carnefice a ricominciare daccapo, senza alternativa se non che la vittima si fa carnefice e il carnefice vittima. È uno spettacolo senza parole e quindi di incisiva comprensione. L’accoglienza del pubblico fu una sorpresa, colse tutti quei momenti di ironia in cui il catalogo delle sevizie ribaltava la drammaticità in un gesto/azione comica, puntualmente avvertita come ad esorcizzare le loro vissute sconfitte, civili e morali, le quali diedero fortuna e successo allo spettacolo.

Mi sembra che oggi il conflitto si sia inasprito al punto che ciascuno dei contendenti vuole la soppressione dell’altro; questo da chi detiene le redini del comando, mentre i popoli, pur nella loro adesione a questo o a quello conosce il dolore della perdita non solo del sacrificio di vite umane parenti per gli aspri combattimenti, ma anche la mancanza di un vivere comune senza assedio. Siamo tutti testimoni impotenti di fronte a ciò che vediamo. Ognuno porta con sé il dolore ma anche la speranza, si dice sia l’ultima a morire.

C’è un gesto che può unire questa sofferta dualità: dolore-speranza ed è l’abbraccio, forte, libero e senza ombre. Lo vediamo praticare, forse ipocritamente, tra i comandanti tanto da invocare trasparenza nel cingere e chiudere tra le braccia l’avversario nella lotta: il bel trastul de gli abbracciari onesti. Abbraccio è dare e ricevere. Anche questo fu un gesto ricorrente, emblematico, politico di un altro spettacolo (“Coro” 1990); segno di arrivo o partenza, di ritrovarsi o lasciarsi, di accoglienza e desiderio. Di legame materiale e spirituale alla vita, corpo e anima, o funesta sensazione di morte; scegliamo la prima in nome di Fratellanza e Sorellanza, mi viene da dire anche Parellanza e Popollanza…è politica anche questa: l’essere partecipi come cittadini, come popolazione, individui che non rubano il cibo dell’altro ma lo condividono, con-dividono, dividono-con…l’Altro.

Non so dire di più legando questo pensiero alle tre immagini che ho dipinto (La parola del nostro tempo 1-2-3) ricostruendo una foto di Andre de Diennes del 1946.

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