Beppe Navello
Politiche culturali

Quale teatro a Roma?

Dopo anni di commissariamento, il Teatro di Roma finalmente ha un nuovo consiglio di amministrazione. Ma - aspettando un nuovo direttore - qualcuno si chiede per farne che cosa?

Il Teatro di Roma ha finalmente un consiglio di amministrazione dopo anni di commissariamento, di incertezza, di pettegolezzi e di dimissioni. Non che siano mancate personalità di rilievo negli organi aziendali ma sono state zittite dalla vocazione al patteggiamento degli incarichi e dall’ossequio nei confronti delle lobbies politico culturali.

Adesso l’occasione per ripartire c’è: alla presidenza siede un uomo di teatro e di cultura, Francesco Siciliano, appassionato dalle sfide culturali più che da quelle di potere; in consiglio d’amministrazione ci sono donne e uomini che il teatro lo hanno fatto e patito in questi ultimi decenni di decadenza e di diminuzione del pubblico.  Le sfide sono molte e dar far tremare i polsi, lo ha riconosciuto Siciliano nelle sue prime interviste: a cominciare dalla riapertura del Teatro Valle, una delle più prestigiose sale italiane di prosa, chiusa da più di dieci anni; e per ridare al più presto un direttore in grado di costruire un programma triennale nei tempi contingentati delle prescrizioni ministeriali, senza ricorrere alle scorciatoie dell’usato sicuro per produrre una stagione comunque.

Non ho la presunzione di dare consigli ai nuovi amministratori che saranno già sollecitati da molte istanze affannose. Soltanto una raccomandazione: quella di tener presente che cosa significa essere Teatro Nazionale e in particolare Teatro Nazionale della Capitale d’Italia. Potrà essere utile tener presente la storia europea di missione civile dei palcoscenici e la loro importanza nella formazione dell’identità nazionale in una città che ha sentito il bisogno di affermare Il suo ruolo di Capitale addirittura nel logo istituzionale per paura di non ricordarselo nelle politiche quotidiane di gestione e di programmazione; senza scoraggiarsi contando il numero delle sale storiche funzionanti a Parigi, a Londra, a Berlino e quelle chiuse da noi.

Occorrerà ripensare prima di tutto al pubblico che aspetta di sedersi davanti al sipario con piacere e voglia di essere coinvolto nell’emozione; e quel pubblico non chiede di sapere nulla degli equilibri coproduttivi che perpetuano la mediocrità contemporanea. Troppe volte ho visto nelle educate platee romane quell’impazienza che il conte Alfieri (uno che di teatro se ne intende) definiva “del sedere, se non fosse sconcia espressione.” Lui guardava il pubblico quando si rappresentavano le sue tragedie ed era un pubblico di eletti, intellettuali ed aristocratici, un po’ come il nostro se non fosse per la scarsità di veri aristocratici: “e ancorché questi pochi non vi assistano pagando, e la civiltà voglia ch’essi vi assistano in più composto contegno… non potendo dunque l’ascoltatore né comandar al proprio suo viso, né inchiodarsi, direi, in su la sedia il sedere; queste due indipendenti parti dell’uomo faranno la giustissima spia al leggente autore degli affetti o non affetti de’ suoi ascoltanti.” (Vittorio Alfieri, Vita scritta da esso, epoca IV, cap. 9)

Buon lavoro, cari amici del Teatro di Roma, siamo in attesa di belle notizie!


Accanto al titolo, il celebre quadro di Giovanni Paolo Pannini, “Festa al Teatro Argentina in Roma per le nozze del Delfino di Francia”, 1747

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