Giuliano Capecelatro
Una voce fuori dal coro

C’è davvero domani?

Qualche considerazione (non necessariamente positiva) sul film del momento, la "favola vera" di Paola Cortellesi dedicata alla violenza dei maschi sulle donne. Forse, il tema è stato solo enunciato...

Quasi non si parla d’altro. Nelle cronache cinematografiche. Nelle chiacchiere estemporanee. Nel diuturno dibattito pubblico sui social. Commenti lusinghieri. Salve di applausi. Evviva tonitruanti. Code davanti ai cinema. C’è ancora domani, opera prima di Paola Cortellesi in veste di regista, tiene banco e scala la classifica degli incassi. Al momento dovrebbe essere al secondo posto.

La storia è ormai nota. Il tema della violenza maschile sulle donne inquadrato nei giorni del referendum istituzionale del 1946, assunto a simbolo. Giorni convulsi in cui l’Italia si sbarazzò di una pessima casa reale e si diede un assetto repubblicano. Doppiamente significativi, il 2 e 3 giugno, perché per la prima volta le donne poterono partecipare al voto, e si recarono in massa ai seggi. La vicenda si svolge in un caseggiato popolare, con Delia e Ivano coniugi e antagonisti.

Entro in sala – in un quartiere romano semiperiferico – sulle ali dell’entusiasmo generale, più che ben disposto. Considero Paola Cortellesi un’ottima attrice, intelligente e, per quanto si può ricavare dalle apparizioni televisive, che sono pur sempre una recita, anche simpatica. Ho apprezzato molto in vari lavori Valerio Mastandrea. Le premesse sono positive. Non è proprio un’adunata oceanica. Ma per una proiezione del primo pomeriggio la sala, di medie dimensioni, è piena a metà e oltre; un ottimo risultato.

Quando cala la tela non crepitano gli applausi. Nessuno inneggia al capolavoro, non si vedono volti rigati da lacrime, su facebook invece corse a torrenti. Sono perplesso, un po’ deluso, ma non posso dire che sia un brutto film. Diciamo che mi aspettavo di più, qualcosa di forte e coinvolgente; qualcosa che scuotesse anche il pubblico maschile, che con il fenomeno della violenza di genere dovrebbe cominciare seriamente a fare i conti. Mi chiedo se non mi sia sfuggito qualcosa che agli apologeti della pellicola è apparsa ben chiara.

In parole povere, gira e rigira, mi è sembrato che il tema della violenza maschile sia rimasto inchiodato al momento dell’enunciazione. Replicata dall’inizio alla fine, con diverse sfumature. Ivano è violento. Violento è suo padre Ottorino (un efficace Giorgio Colangeli), che ritiene legittimo palpare le natiche della nuora (ma nelle belle famiglie da mulinobianco, idoleggiate dagli attuali governanti, si consuma ogni sorta di peccati, non solo sessuali).

Violento è il capofamiglia, che tappa brusco la bocca alla moglie pronta a dire la sua sul referendum, nella casa signorile in cui Delia va a praticare un’iniezione. Violento il futuro e poi mancato consuocero, anche lui lesto a rimettere al suo posto la moglie schizzinosa. Violenti i datori di lavoro, che non ritengono di dover giustificare perché una donna guadagni meno di un uomo: così è, punto.

Tutti questi portatori insani non fanno che ripeterci lo stesso refrain. Ma se la violenza di genere è il nucleo fondante della storia dovrebbe, in qualche modo, estrinsecarsi nel corso degli eventi, innescare nuove situazioni, muovere il rapporto conflittuale tra i personaggi. Tutto, invece, sembra congelato alla semplice indicazione del problema.

Ne risentono anche i personaggi, immobilizzati in un carattere. Per bravo che sia, ed è bravo, Mastandrea, imbalsamato nei baffoni neri, nei capelli impomatati, nella camicia sempre sguaiatamente sbottonata, tranne che nelle occasioni ufficiali, dapprima suscita il riso, poi finisce per infastidire. È un individuo rigido, privo di vita, altro che il “cattivo” osannato da molti; al più è la maschera approssimativa del “cattivo”. Come tutti, tranne Delia, si muove sul confine della macchietta.

Su queste stesse pagine, Ida Meneghello ha messo in rilievo l’aspetto della finzione. Giustissimo. Il film, in un bel bianco e nero che rievoca il neorealismo dell’epoca, non vuole essere un racconto realistico. Deraglia nel fantastico, anche sul piano musicale: motivi quasi sempre moderni, Lucio Dalla in testa, che non combaciano con l’epoca evocata. Ivano sta per colpire per la millesima volta Delia, ma i due si ritrovano abbracciati a danzare sul ritmo di Nessuno, successo di Mina alla fine degli anni Cinquanta.

Dal campo della fantasia esce il rapporto con il soldato americano nero, l’unico maschio gentile della storia, forse perché assegnato al reame dei diversi. E di pura fantasia sarà l’aiuto che fornirà a Delia per risolvere, con un rimedio esplosivo, una situazione sgradita, perché lascia intuire un futuro di violenza per la figlia nubenda.

Ma i due piani restano distinti e separati, rette parallele che mai si incrociano. C’è il tema; e c’è la vicenda che dovrebbe illustrarlo, ma che, quando non scantona nella finzione, ha tratti da commedia. E, forse non a caso, da commedia sono alcuni tra i momenti migliori del film: come l’anziana che recita il rosario all’infinito o le baruffe tra comari nel cortile del casermone popolare; i mugugni “classisti” di padre e figlio.

Il film, poi, si impenna in un finale a sorpresa. Tutti un po’ banalmente presagiamo, in base agli indizi sparsi, la fuga salvifica dal bruto Ivano, un Calibano sottoproletario. Accade tutt’altro. Un epilogo che rappresenta un facile artificio retorico per strappare l’applauso e qualche lacrima. Ce ne sono stati a iosa; ce ne saranno ancora. Il successo economico è ormai un dato di fatto. Ma viene da chiedersi se per questa pellicola ci sarà un domani nella storia del cinema italiano.

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