Paolo Petroni
Al Teatro dell'Opera di Roma

Mefistofele in bianco

Torna in scena Mefistofele di Arrigo Boito, opera popolare e controversa ispirata a Goethe. La nuova edizione (regia di Simon Stone e direzione di Michele Mariotti) la trasporta in una dimensione da inferno pop

Il Mefistofele che Arrigo Boito scrisse, libretto e musica, nel 1868, e rivide sostanzialmente nel 1875 tagliando le parti più filosofico-ideologiche, è opera scapigliata con un fondo roboante, di rottura col passato, quanto a musica e a libretto, la cui messinscena è sempre stata grandiosa in totale aderenza al testo che prevede un paradiso pieno di angeli, una festa popolare, un sabba infernale, le rovine di Troia, una prigione. Una lettura registica che, solo a Roma, ha visto per esempio gli allestimenti spettacolari di Carlo Piccinato nel 1936, nel 1938, nel 1945 e nel 1959, oltre a quello a Caracalla del 1930 firmato da Marcello Govoni, arrivando a quello del 1970 di Giovanni Poli, solo per citare i principali, attenti a far spettacolo con l’inferno.

Per questo le messinscene moderne hanno preso tutt’altre strade, compresa quest’ultima sempre dell’Opera di Roma, che si replica sino al 5 dicembre, affidata a Simon Stone con un buon cast di interpreti, a cominciare dagli ottimi John Relyea (Mefistofele) e Maria Agresta (Margherita e Elena), con la conduzione chiara e incisiva, senza mai indugiare e cogliendo i risvolti romantici, specie nel delicato penultimo atto a Troia, di Michele Mariotti, applaudito a lungo alla fine e a scena aperta con i cantanti, mentre alla prima si è udita qualche contestazione proprio alla regia.

Questo Mefistofele arriva dopo quello di Ken Russel a Genova nel 1987 che fece al solito molto discutere, con Margherita intenta a faccende domestiche vicino a un grande frigorifero che conteneva organi umani (braccia, gambe e uno scalpo di donna), mentre Faust aveva un gilet western e medaglioni al collo, senza contare un contorno favolistico con personaggi come Biancaneve e i sette nani alla Walt Disney, in un continuo gioco di contaminazioni paradossali, tra robot e astronavi. A Palermo nel 2008 Giancarlo Del Monaco vede Mefistofele angelo caduto con le piume arruffate come un Papageno mozartiano, ma anche simpatico affabulatore, uomo in frac alla Modugno, e costruisce scene spettacolari che culminano in quella della caduta di Troia, proposta come una rutilante e seduttiva Las Vegas tra luci, fiamme, effetti speciali, letti king size e oggettistica sexy per l’incontro tra Faust e Elena.

Insomma, difficile da prendere questo kolossal ottocentesco che forse solo sopporterebbe una sorta di lettura onirica, quasi il sogno di Faust e di Mefistofele con la sua sfida a Dio, con connotazioni simboliche e surreali. Per certi versi è quello che alla lontana fa Stone, ma senza eleganza, senza visionarietà e variazioni, con tanto candore imperante e situazioni, come quella inziale, che sembrano irrisolte, posticce. Nelle scene firmate da Mel Page, tutto bianco è così non solo il paradiso del Prologo, dove però schiera il coro in aperture su più piani, come ordini teatrali e sotto, in fila rasente il muro, quello delle voci bianche vestite come giovani, impacciati tennisti, mentre Mefistofele compare in tuta argentata dal sottopalco su una scala a chiocciola con occhiali da sole e tablet, ma anche candida per abiti, giostra e bancarelle è la festa popolare del giorno di Pasqua al primo atto, dove il diavolo è in panni di pagliaccio, sino al momento di rivelarsi a Faust, e dello stesso colore è lo studio di Faust con radiografie di animali alle pareti. E così è persino la scena del sabba infernale il cui unico segno connotativo è un maiale sgozzato issato nel mezzo della scena delle streghe e diavoli, coro bianco ordinatamente schierato su una scalinata, poi anche la Troia con neoclassici colonnati del quarto atto e la Rsa in cui troviamo Faust vecchio in sedia a rotelle nell’epilogo. A questo si aggiunge la vasca lunga tutto il palcoscenico piena di palline, queste sì colorate, in cui i personaggi, e con loro Faust, affondano e nuotano nel vizio, tra alcol e sesso, mentre nella bianca prigione, vuoto stanzone di Margherita con tra le braccia il corpicino di suo figlio, c’è come uno schermo, un altro palcoscenico dove rivivono a colori i suoi ricordi, gli amplessi, i peccati che l’hanno condotta dov’è.

Insomma, a parte la scelta del bianco per una storia diabolica di anime vendute e vizio, che si riscattano solo alla fine, prima Margherita e poi Faust che scacciano Mefistofele in un estremo pentimento, c’è molta incongruenza e invenzioni che non trovano una ragione teatrale e narrativa per questo libretto che lo stesso Boito trasse dal primo Faust di Goethe, spostando l’accento sul lato più diabolico, su Mefistofele appunto, nello spirito del tempo, anticlericale post unitario e positivistico. Quello che aveva visto cinque anni prima, nel 1863, Carducci scrivere il suo Inno a Satana e nascere un’atmosfera intellettuale e letteraria che andava da Hoffmann ai maudit francesi, con un’attenzione, tra il favoloso e l’esistenziale, al macabro, l’orrido e appunto l’infernale.

Tutt’altro discorso per quel che riguarda la musica, che con i suoi caratteri particolari ne ha sancito il successo di pubblico e l’ha fatta diventare opera di repertorio, mentre è stata spesso disapprovata dalla critica che oggi la rilegge storicamente e ne sottolinea i momenti miglior e alti tra altri più etimologicamente fanfaroneschi. C’è così Fedele D’Amico che la aborre e stigmatizza definendola ”un modesto incrocio fra romanza da salotto e romanza d’opera, con un po’ di ‘ballo’ scaligero, ma realizzato il tutto da un dilettante, fra mille incoerenze e oscurità”. Altri, tra cui Lorenzo Arruga, sono più aperti e attenti a scoprire i ”momenti di toccante immediatezza” e si ricorda la seduzione di Margherita e l’incontro con Elena, forse la pagina più alta. Questo riconoscendo l’audacia del suo comporre, con programmaticamente in testa “l’attuazione del più vasto sviluppo tonale e ritmico possibile”, assieme alla “suprema incarnazione del dramma”.

Mariotti ha affrontato con la consueta abilità e sensibilità questo materiale magmatico, “quasi eclettico – come ha dichiarato – frammentario e senza un vero filo unitario”, restituendolo vivo e chiaro, ma anche giocando con i suoi eccessi, se per il Preludio  sontuoso e squillante, wagneriano, tema degli ottoni, ne ha celati 12 con due percussionisti nei locali sottostanti le poltrone della platea con effetti di avvolgente eco infernale (anche poi nell’Epilogo), a contrasto col tema corale poi ascendente verso la divinità con enfasi verdiana e formule liturgiche. Così lavora bene su alcune arie (“Dai campi, dai prati”, sino alla ballata del fischio di Mefistofele, il duetto “Cantiam l’amore” di Faust con Elena e infine “Forma ideal purissima”), e su echi di maniera come su spunti, slanci anticipatori pucciniani nel quarto atto. E il pubblico lo applaude entusiasta sedotto dal suo sentire e dai cantanti, da Mefistofele e Margherita e un poco meno il Faust di Joshua Guerrero alla Marta di Sofia Koberidze e il Wagner di Marco Maglietta, cui si è seguito vero entusiasmo per il coro, con l’aggiunta delle voci bianche, diretto da Ciro Visco.


Le fotografie sono di Fabrizio Sansoni.

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