Paolo Petroni
Al teatro Arcobaleno di Roma

Kraus e l’orrore

Il regista Gianni Leonetti riporta in scena - trent'anni dopo Ronconi - il testo-monstre di Karl Kraus, "Gli ultimi giorni dell'umanità": un apologo terribile sugli orrori della guerra

A oltre trenta anni dallo spettacolo-kolossal di Luca Ronconi nei capannoni torinesi del Lingotto, ecco che un altro regista, Gianni Leonetti, con alle spalle un interesse per il cosiddetto teatro dell’assurdo, coglie la sfida e si misura con lo strabordante Gli ultimi giorni dell’umanità del viennese Karl Kraus (1964-1936) facendone una mini edizione (che si replica a Roma al Teatro Arcobaleno da venerdì a sabato prossimi) di poco più di un’ora, oltre un cortometraggio (tra documenti d’epoca e  immagini surreali) proiettato all’inizio, La guerra: il principio della fine di una civiltà liberamente ispirato a L’uomo senza qualità di Robert Musil, che, facendo qui da cappello a un lavoro teatrale, appare davvero troppo lungo.

Il testo, scritto nel 1919 e pubblicato nel 1922, di circa settecento pagine (Ed. Adelphi – traduzione di Ernesto Braun e Mario Carpitella), ha per tema la prima guerra mondiale ed è stato giudicato dallo stesso autore irrappresentabile, tanto che in vita si rifiutò di cederne i diritti a un regista come Max Reinhardt, rispondendo provocatoriamente che si sarebbe potuto rappresentare solo su Marte. Per più del 50 per cento è composto di citazioni, di testi tratti da materiale vario, bollettini, dispacci, discorsi ufficiali, chiacchere udite al caffè, articoli di giornali del periodo bellico, costruendo un puzzle che desse il quadro dell’assurdità degli avvenimenti, della retorica costruitagli attorno, delle falsità e esaltazione che li accompagnò, con l’aggiunta di interventi, commenti, monologhi che sottolineassero quella realtà, che segnò la dissoluzione dell’Impero Austro-Ungarico e più in generale “la tragedia dell’umanità che si decompone”. In questo senso sono usate come cappello le parole dell’Ulrich musiliano (in video), che arrivano dopo la guerra, a certificare la decadenza e la trasformazione caotica e di massa della società.

Forte di quel che di tragico ci sta accadendo intorno oggi, e che rende queste pagine ancora molto attuali, Leonetti ha puntato sulle atrocità della guerra, con scene che vanno dalla violenza verso chi è critico sulla conduzione all’uso dei gas, perché, visto che si deve uccidere, un massacro è rapido e perfetto; dagli ufficiali e la loro vita nelle retrovie, così che ne sono morti pochi, mentre dovrebbero dare il buon esempio, agli orrori negli ospedali; sino ai campi di battaglia cosparsi di cadaveri, come nell’ultima scena, tra i quali viene recitato l’esemplare, morale e chiarificatore monologo conclusivo.

Scelta plausibile, ma che certo è inevitabilmente parziale rispetto dalle intenzioni originali di Kraus e del suo fluviale lavoro, che attraverso come viene gestita e recepita e discussa la guerra, fa soprattutto un ritratto micidiale della sordida imbecillità della borghesia austriaca e europea, proseguendo il suo abituale lavoro di cronista e umorista solfureo sulla rivista “Die Fackel” con lo spirito satirico anche degli altri, tanti suoi libri. Per fare un esempio, uno dei personaggi principali di Gli ultimi giorni dell’umanità, ammesso che ve ne siano, è la giornalista Alice Schakel, personaggio reale, con le sue entusiaste, aggressive banalità retoriche sulla guerra, sentita anche assurdamente come esperienza di vera vita, che comunque Leonetti fa comparire e pronunciare a monologo uno dei suoi articoli.

Con quell’inevitabilmente poco che coraggiosamente ha scelto di questo monumentale testo, comunque frammentario e fondamentalmente didascalico per sua natura, e quindi poco avvincente, la regia, con scene e costumi di G.d.F Studio,  ha costruito uno spettacolo essenziale che procede per quadri con alcune finezze estetiche grazie a un bell’uso delle luci (firmate da Giovanni Vanzi), finendo però si direbbe per lavorare poco con gli attori, che non si risparmiano, spesso spinti a utilizzare movenze quasi marionettistiche ma, soprattutto, che pare non sappiano che tono usare, così che praticamente finiscono in genere per urlare e basta, a parte Beatrice Palme e Camillo Marcello Ciorciaro che si distinguono nei due monologhi.

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