Paolo Ardovino
Un autore da riscoprire

Bellezza e fascino

Ritratto di Dario Bellezza, poeta che cercava di raccontare il mondo con le armi dell’estetismo. Quello che, per natura, contraddistingueva la sua condizione di artista e intellettuale. Sulla scia di Oscar Wilde

Nei diari di Kafka è presente un passo emblematico nella sua semplicità che, parafrasandolo, recita più o meno in questo modo: Serata desolata in famiglia. Mia sorella ha scoperto di essere incinta e piange, mio cognato pensa al lavoro in fabbrica, mio padre è infelice, mia madre la più infelice di tutti, e io con le mie scribacchiature. Kafka si vergogna, in mezzo a quel quadretto domestico deprimente, di star pensando alle sue «scribacchiature». E però la forza della sua scrittura sta tutta lì, nel mettere per iscritto quel momento.

Allo stesso modo, la forza che permane nei differenti momenti poetici di Dario Bellezza è insita nella volontà di proiettare la realtà nei versi senza una rappresentazione edulcorata ma con l’estetismo che per natura contraddistingue la propria condizione. È così quando è il ventisettenne passionale di Invettive e licenze, nel 1971, sarà così nella raccolta postuma Proclama sul fascino, nel 1996, dove si definisce «expoeta».

Si diceva dell’estetismo: in un’altra raccolta, Dario Bellezza scrive «sono come Oscar Wilde». Più di ogni altro nome negli anni accostato al romano, da Pasolini a Penna a Rimbaud a Baudelaire, è Wilde il riferimento più prossimo: la sua voce poetica è quella di un dandy. A cui non occorrono orpelli, la sua stessa esistenza è allineata con l’arte che origina.

Se il Dario Bellezza dei primi decenni è ampiamente trattato, quello successivo è spesso invece definito come ripetitivo e fatto di luce riflessa. Non è così. Una raccolta come Proclama sul fascino – titolo oltremisura wildiano – risulta riuscita nelle immagini prodotte e nella ricerca poetica. Per quanto la sezione più apprezzabile sia “Il nulla”, composta da testi brevi, nel complesso l’autore arriva a compiervi la desiderata la fusione tra scrittura prosastica e forma poetica. “Appunti per un romanzo in versi” si intitola infatti la sezione finale. Bellezza è ormai un autore maturo, con gli strumenti per saper incasellare un animo assai inquieto in strutture precise. Esemplare l’uso degli enjambement: “Sono diventato un perfetto / casalingo, chiuso in casa, sognando / Dio o il misticismo […] I giochi di parole mi stuccano, le rime / mi inquietano come muse spente e annegate / la vita passa davanti alla stufa / di ghisa, eroina delle mie giornate”.

L’accostamento non è di certo al Wilde giovane e brillante quanto a quello sofferente, esteticamente sofferente, del De Profundis: e proprio sotto la locuzione “De Profundis” va una sezione di Libro di poesia del 1990. Il Dario Bellezza di queste pagine è – la figura la evoca lui stesso – un leone ormai stanco. Il cortocircuito vincente di Proclama sul fascino risiede nel contrasto tra un autore che si autodefinisce fuori dai giochi, che da epicureo qual era adesso si scopre attaccato al corpo che possiede – e come quel corpo si scompone, così la sua anima si disgrega –, ma che nei fatti realizza tutt’altro: leggiamo ora il Dario Bellezza più attento e meticoloso per quanto concerne la forma poetica. E se la poesia guarda alla prosa è perché perfettamente inquadrata nell’evoluzione letteraria del Novecento.

L’autore si avverte spento, eppure è capace di un così forte passaggio sinestetico: “Ed io guardo, contemplo, / rimiro, ascolto la musica dei colori / la invidio, avrei voluto essere io / il poeta della luce, dei glicini, del Sole” (da “Rosso e nero per Sergio Vacchi”). Poche pagine più avanti torna a un’immagine arcinota del suo repertorio, l’attesa notturna sul giaciglio dove l’amore si è consumato: “Ti aspetto col buio, nel buio. / E se la tregua convince le bellezze / davanti a me – nel letto sfatto / saranno – o come presente / il cuore vandalo verso la fine / trova la tregua al nascere / e al morire – sintassi estrema / prima di morire, morire. / Unica parola vietata, sincope, / deragliata, la fine, di tutto…”. Ancora sui riferimenti diretti al testo, sono tanti gli autodafé: “Addio cuori, addio amori / foste i benvenuti, gli adorati / ascoltati meno / per non intrecciare / meschine figure, o suicidi. / Così si scriveva una volta: / carcasse di ingenuità / per volare alto, sacrificare / al nemico, infinito. / Oggi tutto ha perso senso / senza tregua minaccia / anche voi amori, anche voi cuori”.

Prima che quella fisica (si sa forse anche troppo sul profilo biografico di Dario Bellezza), la morte del suo animo un tempo acceso, mosso dalla passione, vivo nella continua risurrezione dalle ceneri, è compiuta ne “Le possessioni diaboliche” che, apprendiamo, “lasciano spazio alla musica / di Mozart”.

Anche quando Bellezza scrive “Ripresi a scrivere poesia / contro la poesia, con pudore / fastidio, inesorabile destino, / con la certezza idiota dei deboli”, traccia le coordinate della sua debolezza ma, come Kafka che si sente ridicolo nello stare con le sue scribacchiature e però comunque fissa sulla carta quella sua percezione, allo stesso modo il poeta romano amplifica liricamente il suo malessere con una poesia esteticamente forte. E qui si cela il grande valore di un proclama sul fascino impartito con voce rotta.


La fotografia è di Dino Ignani

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