Giuliano Capecelatro
A proposito de “La storia da dentro”

Il congedo di Martin

L'ultimo romanzo di Martin Amis è una "autobiografia romanzata" nella quale si discute molto di libri, di letteratura e di vita. Quasi un congedo consapevole, quasi per togliere peso al mistero della fine

«La vita corre verso la morte a 5000 b/h».  La morte è protagonista. Ubiqua. Immanente. Il battito cardiaco, pulsante espressione vitale misurata sull’ora (b/h), è la campana che suona per annunciare la fine. Con piglio guascone, Martin Amis, celebrato e premiato romanziere inglese, la introduce nel Preludio della sua ultima e definitiva opera (La storia da dentro, Einaudi, pagg. XX-684, traduzione di Gaspare Bona, euro 25), tappa che anticipa – profeticamente? – di poco la sua effettiva dipartita, nel maggio di quest’anno.

Altrettanto leggero, con l’aria di accennare a un noioso foruncolo, è Amis nel rievocare le sue idee di suicidio o, formulazione tecnica volta a creare un’ironica distanza, la sua «ideazione suicidaria».

Autobiografia romanzata è la definizione da lui stesso suggerita (e pertanto riportata in quarta di copertina). Perché un libro deve essere calato in un genere per essere presentato al pubblico e farsi strada nella rete commerciale: piaccia o no, un libro oggi è prima di tutto una merce.

Il filo autobiografico, in effetti, percorre tutte le pagine. Martin Amis è sempre in scena, dall’inizio a quando cala il sipario. Si presenta, si esibisce ora in prima ora in terza persona, si racconta, espone le sue idee sull’arte dello scrivere, le sue opinioni sul mondo, sulla storia generale in cui inquadra la storia personale, porta alla ribalta tra luci e ombre i suoi familiari, gatto compreso. Si dilunga sull’amicizia, che ha un ruolo centrale nella sua vita. Non si perita, tutt’altro!, di soffermarsi sugli amori, non sempre nutriti di sentimento.  Allega anche diverse foto che icasticamente definiscono il perimetro degli affetti.

Dal primo istante, con incipit ruffiano – «Benvenuto! Fatti avanti, questo è un piacere e un privilegio» –, crea un solido e cameratesco rapporto con il lettore, apostrofato con il “tu”, alla stregua di un vecchio amico, con l’implicita autorizzazione a chiamare lui per nome. Chiacchiera dopo chiacchiera, conferma di voler parlare di sé. Ma classifica sottogenere il life-writing, un contenitore per troppi prodotti.

Passo lieve e mano sicura, Martin dispensa qua e là consigli per gli aspiranti scrittori.  Non a caso il testo ha per sottotitolo “Come scrivere”.  Un manuale di scrittura, dunque? Solo in piccolissima parte. Da compulsare con cautela. Perché Martin dà l’impressione di credere e non credere alle regole.

Certo, saluta con sollievo la presunta morte del baggy-monster, o macabramente romanzo metastatico, in altre parole un testo infarcito di ogni bendidio, mette all’indice i cliché, riporta meticolosamente la differenza tra storia e trama illustrata dal romanziere inglese E.M. Forster. Discetta, sulle orme del collega americano Kurt Vonnegut, dell’orecchio della mente, «direttore d’orchestra della prosa». Enuncia come un dogma i tre scogli da evitare nello scrivere: sesso, sogni, religione.

Così parlò Martin Amis. Che, tuttavia, dà l’idea di giocare, di divertirsi a vestire i panni di zelante guardiano del verbo per stupire l’amico appena consacrato, il lettore, a colpi di trasgressione. Perché la Storia quei tre elementi li sciorina tutti. E perché, al di là di precetti e divieti, l’unico faro cui sembra dare effettivamente credito è l’autorevole giudizio di Vladimir Nabokov: «C’è una sola scuola di scrittura, quella del talento».

Talento, il nostro amico Martin, figlio d’arte, ne ha da vendere. Dono ereditario? Kingsley Amis, il padre, era autore di notevole successo. I rapporti tra loro non erano propriamente idilliaci; molto più a suo agio si trovava con la matrigna, anche lei scrittrice. Questo, comunque, l’ambiente in cui matura e si forma.

Amis junior, però, batte altre strade; anche politicamente; di fronte al padre, da comunista riconvertitosi in reazionario, lui si erge a fiero e convinto liberal, a suo tempo cooptato nel cerchio magico del premier Tony Blair.

Quasi a compensazione, è lo scrittore Christopher Hitchens a fornire il legame più tenace, l’amicizia di una vita, un padre vicario; sullo sfondo di epiche bevute un sodalizio di impronta decisamente maschilista, che considera le occasioni perse una maledizione, che ammira i poeti perché «beccano» anche senza «bisogno di un uccello grande». Dal che si percepisce, risvolto di ogni virilità enfatizzata, una latente venatura omosessuale.

L’autobiografia comporta, per ovvie ragioni, un registro realistico. Che, invece, il nostro amico subito contraddice, infilando dalle prime pagine un personaggio di pura invenzione: Phoebe, chimerica immagine di donna, Fata Morgana che lo avvolge in una inestricabile rete erotica e continuerà a provocarlo e condizionarlo anche a relazione terminata.

Ma è la morte il vero punto focale di tutto il racconto che tesse Martin.  Quella del padre, avvertita come una scossa improvvisa, una svolta brutale: «un calcio che ti spedisce al piano di sopra». La morte che, tramite l’Alzheimer, sgretola lentamente le facoltà mentali dell’amico e mentore Saul Bellow (premio Nobel per la letteratura nel 1976). La morte che si annuncia con improvvisa crudeltà nel cancro che divora a piccoli passi l’esofago dell’imprescindibile Christopher, cui Martin resterà accanto fino all’epilogo.

La Storia, allora, si impone come un libro sulla morte. Martin sapeva di essere prossimo all’uscita di scena; come Christopher, significativo gemellaggio, anche lui colpito da un cancro all’esofago.  Si è messo al lavoro e ha prodotto questo testo che ha sconcertato i critici. Non per la qualità, che è alta: una scrittura piacevole, scorrevole, accattivante anche nei passaggi in cui le opinioni discordano. Ma per problemi di etichettatura, tanto che il recensore dell’influente Wall Street Journal lo ha reputato non classificabile; e come lui decine di altri.

Viene da pensare, un po’ sul serio un po’ per celia, che Martin, di certo uomo non proclive alla modestia, abbia deciso di creare, con lo strumento che gli era proprio, il proprio cenotafio. Ecco, sembra scandire a futura memoria, questo è stato, nel bene e nel male, Martin Amis, inglese del ventesimo e in parte ventunesimo secolo, scrittore famoso. E, bandite le lacrime, ci ha invitati ad accompagnarlo in questa festosa commemorazione. Fino al congedo. Quando, chiusa l’ultima pagina, dopo aver chiesto al nostro ospite il permesso di giocare col suo cognome (assonanza a parte, in francese Amis significa amici), possiamo affermare di aver davvero perso un amico.

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