Daniela Matronola
Il film del momento

La bisbetica indomita

Ancora sul film di Paola Cortellesi, "C'è ancora domani", per cercare di capire quale valore assoluto cerca di affrontare. Un elogio della finzione per suggerire la verità

I punti forti della critica ostile al film di Paola Cortellesi, C’è ancora domani, sono: l’uso improprio del bianco e nero, e una sua definizione fotografica fredda o falsificante; una certa banalità d’argomentazione (poetica povera, misera, scontata); le strizzatine d’occhio a un certo cine-repertorio, dal neorealismo alle figure di donne interpretate dalla Magnani. Personalmente temevo molto la simulazione, diciamo l’unilaterale rifacimento di tutto il già visto, e quindi una freddezza pervasiva con un fondo acido-amaro. E invece…

Chiunque presenti il film, per esempio ospitando qualcuna delle attrici o la stessa regista per un’intervista, parla con genericità paradossale del periodo nel quale la storia è ambientata. E invece…

Il film è giocato nell’intreccio e nelle immagini su una serie di segni: nelle narrazioni la semiologia è tutto.

Il più evidente è la lettera: per l’intero film crediamo si tratti di un messaggio del meccanico, primo amore di Delia – amore mai reificato e tutto platonico, che le propone di fuggire al Nord con lui. Invece quel foglio è una convocazione: alla Storia, alla politica, alla crescita personale e collettiva. È il certificato elettorale. È una paginetta-chiave.

D’altra parte una serie di segni, sapientemente mescolati, ci portano a lungo a seguire la vicenda pensando a una storia privata e personale, destinata invece a diventare politica e sociale, collettiva appunto, cioè ad aprire la tragedia familiare (dal nucleo chiuso entro cui si ripete uguale la costante mortificazione di Delia e di sua figlia ma a ben guardare di tutti loro in casa in modi diversi), ad un orizzonte più largo di condivisione e poi di radicale, soprattutto, sostanziale e concreto, cambiamento, col suffragio universale.

Il terribile suocero, che si è messo a letto dalla fine della guerra e miracolosamente si alza solo quando sente profumo di pranzo delle grandi occasioni, ci fornisce un altro segno: ha un suo calendario con cui giorno dopo giorno ci fa vivere il mese di maggio come preludio ai primi di giugno. Marcia di avvicinamento al fatto epocale che è l’obiettivo del film, e che poi retroattivamente ci aggiusterà o meglio ci assesterà più correttamente su tutto quanto avremo visto svolgersi sotto i nostri occhi fino a quel momento – ripeto, aprendo la vicenda a un significato più largo, anzi di segno decisamente diverso.

Per cui trovo assurdo che genericamente, a proposito del film, forse ubriacati dal bianco e nero, si alluda all’epoca dei fatti raccontati come agli anni Cinquanta o anni Sessanta, come a dire a un passato qualunque, quando il film intende (lo capiamo appunto alla fine) indicare il 2 giugno 1946 come data di svolta nella vita civile italiana. E poiché quel voto per il referendum di scelta tra monarchia e repubblica si è svolto in una tornata elettorale di due giorni, dopo la domenica, 2 giugno, “c’è ancora domani”, lunedì, 3 giugno – ecco spiegato il titolo, che ha base denotativa, storica, e senso più ampio, connotativo, metaforico.

A proposito della svolta nella vita civile, e non solo personale, privata, delle donne italiane nell’immediato secondo dopoguerra, sottolineerei altri due segni.

Il primo. I detrattori del film tra le altre cose dicono che, interpretando Delia, Paola Cortellesi ha un’unica espressione, imbambolata e mortificata. C’è una bravura magistrale in questo, nella coerenza espressiva, che personalmente trovo sia, negli attori di cinema che girano circondati sul set dal più assoluto casino, una prova di grande resistenza alla distrazione, una evidenza di professionalità. Questa espressione unica che la Cortellesi veste come una maschera di mortificazione ma anche come maschera di inespugnabilità di una donna che deve ogni giorno rintuzzare le offese, una per una, da quando apre gli occhi a quando li chiude la sera, sopraffatta dalla fatica e dalla espropriazione del proprio (appunto) sé, in cosa consisterebbe?

Spero ci abbiate fatto caso, spero abbiate tenuto d’occhio il mento: la maschera apparente è tradita da una impercettibile vibrazione del mento, come Delia fosse sempre sull’orlo del pianto. E ciò accomuna a lei anche il volto ben più indomito di sua figlia, che pur restando obbediente, spesso reagisce, e la rimprovera chiedendole anche di ribellarsi, di fare qualcosa: “Ma io l’ho fatto”, mormora Delia al culmine di uno di questi rimbrotti.

E poi, sempre in materia di segni su cui il senso del film è puntellato, un posto d’onore lo darei a una delle inquadrature finali, in cui Delia, in mezzo alle altre donne, come lei presenti in folla al seggio elettorale, si volta dai gradini alti verso il marito che è più in basso: lo guarda con fierezza dall’alto in basso, lo mortifica finalmente, lo sminuisce e afferma la libertà di aver partecipato a un movimento che dà una svolta al Paese, di essere stata una delle tredici milioni di donne su venticinque milioni di aventi diritto al voto che hanno destituito la monarchia a vantaggio delle repubblica – uno sguardo che esprime molte sfumature, tutte poetiche, cioè di racconto, oltre, cioè al di là, del solo dato storico e politico, pur rilevante, cioè di realtà.

Qualcuno ha criticato negativamente il buonismo del soldato americano: un gentiluomo che come il primo amore di Delia, il meccanico (eccellente Vinicio Marchioni), si comporta con lei senza stereotipi maschili ma con atteggiamento paritario, mentre è lei, Delia, a scambiare le sue attenzioni (non si capiscono per via della lingua) per i soliti approcci galanti, passibili (legittimo timore) di diventare apprezzamenti volgari.

All’anima del buonismo: il buon soldato è l’unico a avere accesso al tritolo (dopo aver fornito la cioccolata).

Qualcuno ha criticato l’uso del bianco e nero, della qualità fotografica fredda, livida, di quel bianco e nero, e ha considerato sbagliata la scelta del balletto nella scena delle botte, oltre al fatto che poi i segni (i segni!) di quelle botte sono pochi, quasi invisibili, e scompaiono presto – errore dei truccatori, cioè, e della regista.

Il bianco e nero sarà forse pure un omaggio a un certo cinema (il neorealismo, ma non vuol dire che questo film si confonda con esso o pedissequamente lo imiti), però dà da pensare: siamo in altra epoca, remota in apparenza e ultrasuperata, ma il tentativo, ora molto più arduo tanto che conduce a definitiva violenza, di sottomettere le donne e zittirle, tumularle nel silenzio, prima ancora che in casi estremi al cimitero, è meno acclarato forse ma non meno pervicace. Il balletto è una soluzione iconografica eccellente, è un fumetto, è il segno (rieccoci ai segni) di una confidenza della regista e degli sceneggiatori col linguaggio del cinema. E poi i segni delle botte, che sono coperti ma soprattutto presto scompaiono, forse vogliono sottolineare il fatto che quelle botte erano talmente ordinarie che alla fine, i segni che lasciavano, nessuno li vedeva più.

Si è detto: troppo bella Paola Cortellesi per interpretare una donna maltrattata, dunque abbrutita. Sarà ma io dico: la naturale eleganza di Delia (non è più Cortellesi, non è più Paola, è Delia!), il portamento, la sua bellezza, la leggiadria, non la salvano dalle botte, non la salvano dalla mortificazione, non la salvano dalle offese, che sono lo sguardo dell’uomo che ha sposato, il quale la considera una bisbetica da domare a prescindere (il caro, vecchio Maestro Shakespeare, a tempo debito, sempre ci soccorre).

Tutto quanto sopra considerato mi permette di procedere all’ultima osservazione cui tengo da pazzi: non è solo realismo, il cinema, dunque neppure questo film – un’opera d’ingegno risponde principalmente alla poesia, a una concertazione che metta in equilibrio il vero e l’inventato, il reale con un impossibile che sia però poeticamente necessario e plausibile o verosimile e soprattutto veritiero. Doverlo ricordare è un po’ inquietante, di questi tempi così puritani e fondamentalmente ciechi.

C’è ancora domani è sicuramente cinema. Grande.

Facebooktwitterlinkedin