Paolo Ardovino
Un autore da riscoprire

Le visioni di Deguy

Ritratto di Michel Deguy, poeta francese morto un anno fa e molto amato da Andrea Zanzotto, che ha inseguito il senso delle cose cercando di "fare" poesia, invece di scriverla

Circola in radio in queste settimane, con grande frequenza, uno spot. La promozione di un’università privata che punta forte sui suoi nuovissimi corsi che si sommano a un’offerta già ricca. La voce da venditore consumato sostiene con forza il concetto di «specializzazione». In un mondo complicato come quello di oggi, dice più o meno in questi termini, specializzarsi e saper fare bene un’unica cosa è una competenza che nel mercato là fuori, assicura il venditore, si vende bene.

Con un colpo di polso Michel Deguy avrebbe girato la rotella della radio per zittirla. Per niente d’accordo. Forse ai suoi tempi si chiedeva cosa fosse meglio fare. Se scrivere in prima persona o piuttosto essere un critico o addirittura un editore, se concentrarsi sulla letteratura o cedere alla fascinazione per la filosofia. Se cantare l’Eros o abbandonarsi al Thanatos. Per fortuna, ai tempi di Michel Deguy, le radio non passavano messaggi promozionali di università private. E lui, allora, ha fatto tutto. E tutto assieme.

Nato a Parigi nel 1930, il poeta e pensatore francese è morto il 16 febbraio del 2022. Una delle pochissime letture che possiamo farne in italiano è la raccolta Gisants, tradotta da Gérard Genot, in un’edizione preziosa pubblicata da San Marco dei Giustiniani nel 1999, con prefazione di Andrea Zanzotto e quattordici anni dopo la prima uscita per Gallimard. Il suo, di Deguy, è – i virgolettati sono proprio da Zanzotto – un «correre il mondo come un tarantolato, e con gioia», egli è «uno che insegue negando di inseguire». La sua poesia, figlia della ricerca onto-linguistica di Valéry, ha pochi versi e tanta prosa. Si tratta della prosa-in-prosa ben descritta dal critico Paolo Giovannetti in diverse pubblicazioni, ante-litteram e magmatica. La raccolta procede come una costruzione che si fa e si disfa, le sezioni paiono appunti in corso d’opera: «Progetto di libro delle statue giacenti», «Relazioni», «La cancellazione», «Il diario del poema». Il poeta ragiona apertamente, in poesia, sulla sua poesia: “(Fare di giacenti una resurrezione. A che?)/Meglio guarire ogni giorno l’inguaribile”.

Lo sfondo entro cui si muovono le visioni di Michel Deguy è meta-poetico: cosa significa fare poesia, cosa è un linguaggio poetico. E questo viene inscenato, con una sintassi sincopata, da racconti quotidiani, fatti di cronaca, dediche segnate a fondo pagina. Si intitola proprio “Dedica” un breve testo che se svuotato da raffigurazione umana si rivolge all’arte poetica: “Non posso scrivere il tuo nome. Lo vietano le leggi. Avendo scritto il tuo nome, direi che non lo dirò mai e così l’occulterò. Sei la mia crismologa. È scritto che si compia il tuo voto: che io scriva un giacente”. Precisiamo: una definizione di questi Gisants è impossibile e inutile. In una lettura universale le statue giacenti siamo noi, moti perpetui racchiusi da una corazza, e «che ci si muova o non ci si muova, da questo luogo si è risucchiati giù» (Zanzotto). Ma poi la statua giacente è la poesia stessa: “Ad ogni costo voglio rientrare nella lingua, voglio alle possibilità di dire far dono di questo smarrimento verso ciò che ora ha da te ricevuto nome – recita un passaggio del testo “Fabbrica” – […]. E vorrei che il poema si facesse romanzo per attrarvi i gesti della cucina, le chiacchiere al telefono, l’uso del vento, l’insignificanza di quel che ci separa dalla morte; ad ogni costo ridare alla lingua, che ne sarebbe il suo sepolcro, tutto ciò che essa ci dona che si chiama il suo esterno, e il ripiegarvi questa vita […] in un oscuro e barocco monumento del suo difetto, che altri le rimproverano”.

Il tentativo di Michel Deguy è di prendere dalla lingua più di quanto gli sia poeticamente concesso. Nasce così una raccolta dove, ripercorrendo ancora Zanzotto in un brillante passaggio, «predomina comunque il racconto che non è né racconto, né “poema”, né teoresi pura, né prosa d’arte e che sembra rifuggire dai ritmi, anche se spesso danno robustezza alla prosa proprio i ritmi». Deguy evade dall’idea di una poesia ferma, la immagina mutevole e senza riconoscibilità: Gisants è un elogio dell’azione poetica. Della meccanica del poetare. È il Pensare e poetare di Heidegger messo in pratica.

Un brano discorsivo, “Spazio”, si apre così: “I bambini ne chiedono e ne chiedono ancora. «Conquista dello spazio; guerra dello spazio; nave spaziale, ecc.» Sovente il loro desiderio dà un titolo ai film americani. Una fame di spazialità e di spaziosità s’immagina – s’immagina di poter essere soddisfatta soltanto dall’aldilà di questa terra angusta e inquinata, divenuta pianeta, nell’ambiente «intersidale» del «non identificato», dove gli Himmlsliche di Hölderlin sono diventati gli extraterrestri”.

Si sostituisca lo spazio inteso come universo con la rete virtuale. E il sostantivo spazio con lingua.

E la poesia dove si pone, entro i limiti dello spazio? Sull’orlo (“Perché ritorna questa formula amata/«Sull’orlo del mondo ancora una volta»/Quest’orlo cos’è, che cosa è «orlo», essere-sull’orlo/L’orlatura per Baudelaire e/La terrazza dei prìncipi di Rimbaud/Con vista sul mondo e il tutto come/Passato da qui che ripasserà di là”).

Non bisogna scrivere la poesia. Bisogna farla. Ma il concetto è labile e non lo si può incasellare. Il che spiega l’eredità poco percorsa di Michel Deguy. Un giorno, in una conversazione con Giorgio Devoto, l’editore della San Marco dei Giustiniani si divertiva a definire Gisants il libro meno venduto del suo sconfinato catalogo. E ricordò che l’endorsement pubblico di Zanzotto verso l’autore francese, sulle colonne di un noto giornale, si tramutò il giorno dopo nella vendita di appena quattro copie.

“Stavo per dire: è l’ambizione della poesia di essere la cometa federativa, la fraternante nella quale i privilegi sono aboliti, la non-snob. E quando Breton tentava di chiamarla alla «insurrezione generale»: sogno d’adulto? Ma torniamo all’adolescenza; e alla delusione. Peccato che la poesia sia fatta di poemi e di linguaggio di lingu(a,e) – si dice talvolta l’adolescente –; se non fosse di questa consistenza verbale e verbosa, spesso così difficile, andremmo numerosi incontro alla poesia! È la rottura di Rimbaud che ha creato la leggenda rimbaldiana – e, di rimando, la lettura di Rimbaud; forse bisognerebbe abbandonare la scrittura del poema per il deserto!”.

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