Daniela Matronola
A proposito de "La casa del mago”

Trevi e il professore

Emanuele Trevi ha scritto un libro (quasi un romanzo) dove va in cerca di suo padre, il celebre psicoanalista junghiano Mario Trevi. Più che un'autobiografia, una riflessione sulla vita e la scrittura

Noi scrittori abbiamo tutta una serie di tic: non tanto nel senso dei rituali di scrittura, come intendeva dimostrare il primissimo libro, forse, pubblicato da Francesco Piccolo con la giovane etichetta minimumfax nel 1996 (riti e scaramanzie, cerimonie e scacciaguai o talismani che finiscono piuttosto per alimentare la mitologia della letteratura e offrire un facile balsamo all’idolatria dei lettori) quanto nel senso di usi e attitudini in cui poi si finisce per risultare simili poiché accomunati da trovate per ossessioni condivise.

Una di queste sicuramente è il pedinamento. Tallonare un personaggio sapendo che standogli dietro si segue il filone aureo centrale nella vicenda del racconto, e si distilla l’elemento portante dell’intera situazione (romanzi e racconti, dopotutto, sono in soldoni situazioni) come il segugio fiuta la traccia in un mare inebriante di odori. Soprattutto spiarlo nei margini delle pagine scritte dove il padre inseguito ex post dal figlio ha annotato tutta una serie di chiose motteggi appunti notazioni reazioni in cui credeva sul momento di essere non visto dunque totalmente libero. Sì, alcuni di noi hanno questo in comune.

In La casa del mago (Ponte alle Grazie 2023, pagine 256, €18,00), Emanuele Trevi è sulle tracce di suo padre Mario Trevi (nella foto accanto al titolo). Un padre perduto che già in vita era perso. Non perché non fosse a tutti gli effetti un padre, o perché non esistesse tra figlio e padre (osserviamo tutto a partire dal racconto anzi dalla ricognizione del figlio) un legame affettuoso, una confidenza sotterranea e a volte anche di superficie, implicita ed esplicita allo stesso tempo, ma perché Mario Trevi, psicanalista junghiano, guaritore e mago nella rievocazione ammirata amorevole e rispettosa di suo figlio, era un uomo distaccato ma non scostante, cioè indipendente e libero, non convenzionale, cioè poco avvezzo ad esempio alle convenzioni dei convenevoli e degli usi comuni nei rapporti con gli altri. A suo modo inavvicinabile. Sui generis, certamente, eppure prodigo di doni di cure di attenzioni verso quel mondo che pure rifuggiva se si doveva produrre, ciò che evidentemente gli era estraneo, in forme di relazione appunto convenzionali.

“Lo sai come è fatto” era una specie di frase idiomatica e insieme disclaimer con cui la madre, da mediatrice brusca in seno al nucleo familiare di loro quattro, agiva da interruttore-passacorrente tra questo padre mite e oscuro, dunque magistralmente enigmatico, e i figli, soprattutto il figlio maschio, lo scrittore, Emanuele.

Ma accennavo al pedinamento di tutto un patrimonio di tracce da fiutare e seguire senza distrazioni.

Nel “romanzo” (le virgolette sono d’obbligo, e tra un po’ diremo anche perché) l’intero ambiente è disseminato di tracce: tracce scritte. Non solo perché il professor Mario Trevi è stato autore di numerosi testi scientifici molto significativi, non annoverabili come best seller ma eccellenti contributi alla critica neojunghiana, ma anche perché, abitando la casa ai Parioli che a suo padre era servita da studio, il figlio si ritrova tra le sue cose, tra i suoi libri, più tra i testi di studio e lettura che tra i testi pubblicati, e gli si spalanca davanti appunto l’avventura di poter spiare suo padre lettore, osservatore, critico, reattivo verso il maestro, Carl Gustav Jung, del quale non poche volte contesta con esclamazioni candide, smagate proteste, i molti passaggi in cui il grande psicanalista antifreudiano sostiene di dimostrare e non dimostra, considera evidente ciò che in nessun modo lo è, e si esibisce in salti logici, assurdità, a suo parere veri e propri deliri.

“Mio padre incarnava allo stesso tempo il lettore ideale e il peggior lettore che poteva capitare in sorte a uno scrittore”, scrive a un certo punto Emanuele Trevi, prima di definire con maestria i punti forti di Jung, e dopo averci fatto sin qui, e continuando oltre a farci, il ritratto di questo padre distante, enigmatico, eppure vero mago della psicanalisi: un uomo che aveva il dono di ascoltare, sanare, il tocco magico di chi guarisce. Del tutto (agli occhi di questo figlio stregato che lo ritrae magistralmente, talvolta specchiandosi in lui) insospettabilmente.

È breve il tempo in cui, una volta morto il padre, i familiari considerano l’eventualità di vendere lo studio che dopotutto era la vera casa del padre psicanalista, il suo antro di mago guaritore. Dura poco l’idea di cederla a estranei. Emanuele per combinazione in attesa di un appuntamento antelucano con un possibile acquirente ci passa una notte. E il gioco è fatto. La casa non si vende. Il figlio ci si stabilisce. Ci va ad abitare. Per esserne abitato. Per abitare il mago. E per lasciar pascolare e interagire tutti i fantasmi che la abitano.

In una presentazione romana, a proposito del libro è stata pronunciato la parola autobiografia soprattutto per mettere in risalto tre elementi che effettivamente coabitano nel tessuto raffinatissimo di questo libro: il sé, la vita, e la scrittura – suscitando la ribellione educatissima dell’autore, che giustamente ha reclamato eventualmente la classificazione del libro come autofiction, in cui l’elemento autobiografico è rischiarato dall’invenzione, che è tipicamente un gesto letterario, del quale, ci ricordava Emanuele Trevi, è stato primo valido autore Paul Auster con L’invenzione della solitudine.

Proprio qui si apre la questione del “genere”, ammesso che sia strettamente necessario definire questo libro secondo una categorizzazione di genere.

Si è gridato (nel senso dei blurb) al “ritorno al romanzo”, e il fatto che nel libro fiocchino personaggi dal vero tra cui la Visitatrice, la Degenerata, la Paradisa (ribattezzata Gatta Morta) e l’inquietante Miss Miller che torna dal passato e dalla clinica, oltre al fugace riemergere di Ernst Bernhard, psicanalista di tutta una schiera di scrittori nel dopoguerra tra cui Manganelli (forse maieuticamente destato alla scrittura proprio dal celebre “mago”) e Amelia Rosselli, sembra consolidare questa idea.

Ma questo libro consolida altro.

Consolida il fatto che Emanuele Trevi (d’altra parte fin dal suo primissimo libro, un Castelvecchi del ’94, Istruzioni per l’uso del lupo) ha trovato una sua specific blend o miscela specifica in cui il mémoir s’intreccia al personal essay, e la narrazione di luoghi fatti e personaggi riporta anche, in chiave narrativa, tutta una documentazione dal vero e ricognizione della realtà in cui l’autore con genuino gesto romanzesco scova la traccia e la voce che lo conducano lungo il tragitto e trascinino con lui e con l’intera costruzione il lettore. Con un effetto ipnotico che si nutre della realtà e però la inventa nel momento in cui, ad esempio, come un maturo Pinocchio, Emanuele Trevi, autore, voce narrante, deuteragonista in perenne altalena con “il mago” nella centralità sulla scena, partendo dall’astrologia e da un perduto quadro astrale, ci rivela: “Si lacera la placenta, l’aria irrompe nei polmoni, iniziamo a rotolare nel tempo, sul piano inclinato dell’irreversibile. Sempre più veloci: da un nulla a un nulla, se vogliamo. Come quello che viaggiava a cavallo di una palla di cannone”.

Questa è filosofia. Ed è anche letteratura. Lo è perché come un novello Voltaire, o un navigato Chaucer, Trevi ritrae (molto) sé stesso come persona improbabile, incerta, precaria, instabile, in bilico, ed è molto plausibile sia questa la percezione autentica che egli ha di sé come viaggiatore improprio quanto tutti noi di questo mondo, e noi, fraternamente, ne ricaviamo un’idea di vulnerabilità, ma, nella inarrestabile tessitura di idee, di suggestioni, di metodo che questo libro con meticolosa naturalezza ricama, poi ci rendiamo conto che emerge invece la sua INvulnerabilità, una finale INattaccabilità e forse IMmortalità. Dunque scopriamo di dover ragionare al contrario.

Naturalmente non si tratta di un giudizio sulla persona ma di una definizione dello scrittore-narratore-attore, e anche di un allargamento -a questo punto- della consumata parola “romanzo” che molti hanno appioppato a questo libro – il quale tutto pare meno che un romanzo in senso canonico. Semmai, questo si può effettivamente attestare, è appunto una più larga definizione di romanzo e forse, come proprio Trevi reclamava sere fa, finalmente una più accurata indicazione del genere autofiction. Sempre se debba ritenersi vitale coniare etichette (editoriali) o non piuttosto categorie critiche da attribuire alle opere.

Con Trevi e questa sua Casa del mago da un mélange di generi della saggistica reinterpretati un chiave di racconto possiamo concedere un ritorno al romanzo passando per una sua auto-invenzione ibridata. Il romanzo perciò, va detto, è vivo e lotta insieme a noi, e dimostra di avere sette spiriti e una sua natura metamorfica. Questo per fornire pane per i denti di chi chiede obbedienza a cassettini compositivi pronti.    

Facebooktwitterlinkedin