Leopoldo Carlesimo
Un racconto coloniale

Match di reclutamento

«C’era un capannone, in fondo al campo. Una specie di rozzo hangar fatto di tronchi scortecciati e fogli di lamiera. E dentro al capannone era stato eretto un ring, un semplice spiazzo sabbioso sommariamente cintato da due corde di canapa annodate a pali di legno infissi nel terreno»

La città era in corso di costruzione un paio di chilometri a monte della diga, sul primo gradino dell’escarpment che sale al Plateau.

Il Nyika Plateau occupa il nord-ovest del Paese. È un altopiano brullo, un’ondulata distesa di brughiera duemila metri sopra il livello del mare, che dal bordo orientale precipita in un brusco salto, fino alle rive dell’immenso lago. Dall’orlo del Plateau scendono al lago torrenti dal corso accidentato, fitti di rapide e cascate. In una zona poco abitata non lontana dal confine con la Tanzania denominata W., negli anni Ottanta le autorità del luogo decisero la costruzione di una diga. Era un buon punto per farla. Nei pressi di W. il flusso alcuni di quei torrenti si raccoglieva in una conca, dalla cui soglia meridionale si dirama in una gola perfetta – quanto a topografia, geologia e idrologia – per impostarvi le spalle di una diga. Lo sbarramento avrebbe formato un bacino sospeso su una terrazza intermedia dell’escarpment, sfruttando i quasi trecento metri di dislivello per generare energia. La gara d’appalto, bandita dal governo di Kamuzu Banda, fu vinta dalla Compagnia.

Si pose la questione della township dove alloggiare gli operai. I villaggi maggiori si trovavano tutti a valle, disseminati lungo la stretta fascia costiera che dal piede dell’escarpment scende dolcemente al lago. Oppure a monte, sopra al Plateau, dove s’estendono a perdita d’occhio gli spopolati pascoli dell’altopiano. Ma nei dintorni di W., luogo impervio e isolato, non esisteva nulla. Fu giocoforza, quindi, fondare la township dal nulla.

Non la soluzione che Angelo avrebbe preferito. In base alla sua esperienza, conveniva appoggiare la città operaia a un villaggio preesistente, piuttosto che crearne una ex-novo. Non soltanto per economia e logistica, no, non si trattava solo di ragioni utilitarie. Ve n’era una più sfuggente, quasi una sorta di superstizione. Angelo era convinto che fosse meglio costruire la township là dove un nucleo umano esisteva già, erigere la città nuova espandendo una presenza anteriore. I fatti che accaddero nel campo di W., le disgrazie di quello sfortunato avvio di cantiere, lo rafforzarono in questa convinzione. Quando tutto fu finito, seguitò a pensare che non sarebbe successo, se non avessero fondato la township sul nulla.

In parallelo con l’installazione del cantiere, iniziò dunque la costruzione della città operaia, affidata a una miriade di piccoli costruttori locali. Lillipuziani tacheron, dittarelle individuali dei dintorni, ciascuna in carico di una sola o al più di un paio delle baracche in blocchetti di cemento e lamiera che avrebbero ospitato le maestranze. Questo manipolo di tacheron era coordinato e diretto dal capo del personale locale, un certo Kamma’lere.

Le township operaie erano alquanto spartane. Un primo nucleo di una dozzina di baracche, che cresce poi tumultuosamente, in pochi mesi, man mano che il cantiere si sviluppa. Prende forma dal nulla un insediamento miserabile e sovrappopolato, che in una diga media, da un migliaio di operai, può arrivare a contare oltre diecimila persone: parecchi operai hanno portato con sé le famiglie, o le porteranno a breve, al campo vivono donne, bambini, vecchi; poi ci sono le famiglie nuove che rapidamente si formano lì; e poi forme collaterali di aggregazione umana: siccome per qualche tempo c’è uno stipendio che gira, chi viene assunto si fa raggiungere da fratelli, cugini, parenti poveri del villaggio, e li mantiene nella speranza che di lì a poco trovino pure loro lavoro in diga.

Appena fuori dal campo c’è la baracca delle assunzioni. Porta l’insegna – un  tavolaccio scritto a mano con la vernice – ‘Direzione del Personale / Ufficio Reclutamento’. Ci bivacca gente tutti i giorni, lì davanti. Uomini perlopiù analfabeti, corpi forti, tasche vuote, un paio di calzonacci tenuti su con un pezzo di spago, una sudicia maglia slabbrata e lacera sulle spalle, non tutti portano scarpe ai piedi. Sono in competizione tra loro per un posto da manovale, da sterratore, da minatore. Roba in cui conta la forza fisica, la capacità di sopportare la fatica. Si disputano uno di quei contratti che quasi mai portano in calce una firma, piuttosto una croce oppure l’impronta del pollice destro: sei giorni a settimana più disponibiltà a comando la domenica, paga base di una kwacha e mezza l’ora per duecentosessanta ore mensili, coefficiente straordinari (1,3) per le ore in eccesso, coefficiente maggiorato (1,5 o 2) per notturni e festivi. Una birra media nella più sudicia bettola di Mzuzu, la città meno lontana degna di questo nome, costa otto kwacha.

Oltre a quelli che in diga già ci lavorano o sperano prima o poi di farlo, nella township vive un bel po’ d’altra gente che con la costruzione della diga ha poco a che fare: chi avvia piccoli commerci, chi rubacchia qua e là quel che gli passa sottomano del flusso di merci che il cantiere mobilita: cisterne e cisterne di gasolio, cocotte di cemento, carichi di ferro, container di ricambi e altra attrezzatura, che su vecchi camion macilenti traversano tutti i giorni quel tratto di bush che non ha mai visto niente di simile. Tanta roba in transito, da cui la piccola pirateria locale delle communities gratta quello che può: un sacco di cemento o una tanica di gasolio valgono più di una giornata di lavoro.

L’invasione di merci determina un rapido spostamento di valori e muta intensità e natura degli scambi. Il polo d’attrazione si trasferisce lì, nella città operaia. C’è chi ci porta prodotti agricoli dei dintorni, bestiame e latticini, pesce pescato lungo i torrenti della zona o legname abbattuto nei boschi del circondario. A ridosso della township quasi subito sorge – e poi si amplia, fino a diventare il più importante del distretto – il mercatino stabile del cantiere, dove le donne degli operai vanno a fare la spesa tutti i giorni. C’è denaro che circola alla luce del sole, una grossa novità. E ne circola ancor di più dopo, col buio: nei pressi del mercato brulicano tante altre forme di commercio. C’è chi vende il proprio corpo o altra roba smistata un po’ di contrabbando, in localini notturni che spuntano come funghi qua e là. Nella township si radunano mercanti, trafficanti, ladruncoli e puttane, c’è prostituzione, alcol, droga, ricettazione spiccia di furtarelli quotidiani, si combinano tanti affari.

Quello che i tizi del sindacato vollero mostrare ad Angelo la sera in cui vennero a prenderlo a casa, dopo cena, era un affare di scommesse. (Lentamente, le cose stavano cambiando anche laggiù, in quel pezzo di continente che gravitava attorno al Sud Africa dell’apartheid: in un cantiere internazionale cominciavano a circolare i sindacati). Quei tizi gli parlarono dell’abbinata combattimento-azzardo, che attecchisce un po’ ovunque, dove c’è gente che lavora; e gli parlarono di quel tal Kamma’lere, il direttore del personale, suo braccio destro malawiano.

Il capo del personale locale, specie agli inizi, è una potenza. Appena entrata in un Paese di cui sa poco o nulla, la Compagnia s’affida per forza a un certo numero di eminenze locali. Alcune se le sceglie per conto suo – quasi sempre sbagliando, perché cosa ne sa del posto e dei suoi uomini – e poi fatica di bestia a liberarsene. Ma perlopiù sono figure suggerite da qualcuno cui non si può dire di no e il capo del personale locale è una di esse.

È in genere una personalità di spicco della zona, uno che sa come gestire gli uomini, ha carisma e autorità nel territorio, sa disbrigare impicci coi metodi e secondo i costumi in vigore laggiù, tiene l’ordine e la disciplina. Spesso è un piccolo feudatario regionale, o una sua emanazione, uno che nella tradizionale struttura tribale del Paese raccoglie e amalgama l’autorità dei villaggi sparsi nei dintorni, quelli che forniranno la manodopera di base. Può anche capitare che sia un capo illuminato, uno con cui intavolare trattative sui benefici che il cantiere deve al territorio. Magari è uno in gamba, che costringe la Compagnia a negoziare, a ogni nuova richiesta, una contropartita. La costruzione di qualche scuola, ad esempio, o un dispensario medico, o il rifacimento di piste e strade, l’irrigazione di certi campi, o piuttosto l’edificazione di una chiesa oppure una moschea. Se è bravo, può far molto per la gente di lì. Se sa leggere vantaggi e danni che la diga porta con sé; e s’applica a massimizzare i primi e mitigare i secondi. Allora il bilancio può essere ampiamente positivo e ciò dipende in larga misura da lui. Talora può andar bene, se è una persona di livello, lungimirante. Altre volte, però, non lo è. Nei casi peggiori – non i più rari – la sua visione è del tutto distorta e allora il capotribù somiglia più a un capomafia, un capobastone, il confine è labile, magari è uno che bada solo ad arricchirsi.

Dopo che quelli del sindacato ebbero detto ad Angelo quel che pensavano di Kamma’lere, lo portarono a vedere il posto.

C’era un capannone, in fondo al campo. Una specie di rozzo hangar fatto di tronchi scortecciati e fogli di lamiera. E dentro al capannone era stato eretto un ring, un semplice spiazzo sabbioso sommariamente cintato da due corde di canapa annodate a pali di legno infissi nel terreno. Sul ring due uomini completamente nudi si affrontavano in un combattimento scomposto: calci, pugni, prese di lotta. Angelo si chiese se i loro corpi fossero unti o solo interamente aspersi di sudore – ci faceva un caldo soffocante, lì dentro – perché erano lucidi, brillavano, avvinti l’uno all’altro in un complesso incastro, quasi a formare un unico furioso organismo che pulsava, si contorceva deformandosi, liberando di quando in quando una testa protesa, un braccio che s’alzava per poi riabbattersi, gambe che scalciavano. Quando si distaccarono e scivolarono via, lustri e lisci come creature acquatiche, teste e arti si sciolsero dal groviglio e i prodotti di quella fluida scissione sobbalzarono sulla sabbia chiara, riprendendo forma umana singola, distinguibile.

Il primo era un uomo fatto, massiccio e già un po’ appesantito dagli anni, con una vistosa screziatura grigia che attraversava la capigliatura crespa, rasata corta; il ventre prominente, arti e torso robusti appena inflacciditi e chiazzati qua e là di grasso; l’altro era un ragazzo parecchio più giovane, meno robusto, meno piantato, ma molto più mobile, elastico e leggero. L’uomo occupava il centro del ring e cercava di menar colpi o di abbrancare il ragazzo con quelle sue braccia forti e muscolose, ma lente. Il ragazzo gli danzava intorno e sfuggiva, abbassandosi o scartando di lato, schivando i colpi. In un paio di occasioni il vecchio riuscì a centrare il giovane e questi barcollò, ma fu ancora abbastanza agile da attutire il colpo, arretrando, e poi sufficientemente lucido e veloce da schivare i successivi e sfuggire alla presa del vecchio, che subito dopo averlo colpito intensificava i suoi sforzi per essergli addosso e abbrancarlo; e certo se vi fosse riuscito, se avesse potuto prenderlo e tenerlo fermo tra le zampe, avrebbe avuto partita vinta; perché il vecchio era più grande e forte e pesante e aveva di sicuro più esperienza e, con l’esperienza, la cattiveria di saper picchiare. In un paio di occasioni ci andò vicino, poté artigliargli un braccio o una gamba e per qualche istante lo tenne, cercò di trascinarlo a terra vicino a sé, imprigionandolo sotto il suo peso, e allora gliele avrebbe suonate.

Avrebbe anche potuto farcela, se i corpi fossero stati meno sudati o unti, chissà, forse il giovane non sarebbe riuscito a sgusciar via e l’esito del combattimento si sarebbe volto in favore del vecchio. Ma per un po’ il giovane ebbe fortuna e riuscì a sfuggirgli, si sottrasse d’un soffio alla presa e incassò solo qualche duro colpo al volto, che sanguinava in due o tre punti; però, anche stordito, trovò il guizzo per liberarsi e il vecchio, coi suoi pesanti pugni a martello, andò a vuoto nella replica, cercando goffamente il bersaglio. Fu lì lì per prenderlo parecchie volte, ma ogni volta gli costava energia; e faticava, poi, a recuperarla, piantato immobile in mezzo al ring, ansimante, suonato come se il colpo l’avesse incassato lui. Quindi, ripresosi, di nuovo spendeva forze per inseguire quella preda mobile e sollevare le sue braccia torpide sempre più bolse, cercando nell’aria, invano, la figura erratica che gli danzava e saltellava intorno come un folletto. Anche la testa del vecchio si muoveva più lentamente, troppo tarda per seguire i movimenti dell’avversario, che non era mai dove l’altro se l’aspettava. Gli scarti del giovane sorprendevano il vecchio e lo confondevano, non aveva più i riflessi per seguirli: quel ragazzo lo stordiva anche senza colpirlo, con tutti quei salti e quelle finte e quelle giravolte. E a quel punto, quando il vecchio barcollò non per i colpi ricevuti ma per le energie spese, allora il giovane cominciò a colpire. Colpiva veloce, seguitando a muoversi, gli girava intorno in un verso, poi nell’altro, scartava di lato e s’abbassava; e quando, in quei movimenti, lo sorprendeva con la guardia bassa, o troppo alta, e lo vedeva scoperto, allora picchiava. Il vecchio era lento e sempre più rigido sulle gambe e sul torso ed era sì un buon incassatore, ma ormai anche un facile bersaglio. Il ragazzo inizialmente tirò al corpo, al ventre flaccido e al torso imbolsito. Finché, quando il giovane cominciò ad alzare la mira e colpire al volto e il sangue prese a colare sugli zigomi e a fuoruscire dalle labbra spaccate e dal naso del vecchio e il suo viso fu coperto d’un velo misto di sangue, sudore e bava e la vista gli s’annebbiò, non restò che chiedersi per quanto ancora il giovane l’avrebbe schernito e quando invece avrebbe fatto sul serio e si sarebbe deciso a chiuderla.

C’era folla attorno al ring, perlopiù uomini, tenevano gli occhi fissi sui lottatori e portavano alle labbra calebasse – mezze zucche scavate – o vuoti di plastica segati, in cui bevevano quel liquore torbido tratto dal miglio fermentato che chiamano dolo o chapaloo; e stringevano in pugno mazzette di banconote lerce – i loro kwacha, ce ne voleva un bel mazzetto per pagarsi una serata di scommesse e la settimana di un manovale bastava a stento a mettere insieme tanto. Erano presenti anche delle donne, meno numerose degli uomini e meno interessate alla lotta. Il loro sguardo si concentrava sui malloppi di kwacha accartocciati in quelle mani sudate, ch’esse valutavano a colpo d’occhio, soppesando importi, valore delle puntate e conseguente valore degli uomini, cercando d’avvicinare i più promettenti. C’era chiasso, perché tutti gridavano, e volti accalorati e pubblico rumoreggiante che incitava l’uno o l’altro dei combattenti. E il rumore scomposto, il frammentarsi di voci che circondava il ring faceva da bizzarro contrappunto sonoro alla lotta silenziosa e grave che i due v’ingaggiavano senza l’interposizione di filtro alcuno: né guanti, né maschere, né arbitro; corpo a corpo puro, scandito dal suono aritmico, contratto e sordo di carne che urta su carne, ossa su ossa. Finché il giovane saltò sul vecchio, piazzò un calcio violento al volto e la lotta ebbe termine. Allora il pubblico rumoreggiò più forte, distolse l’attenzione dal ring per concentrarla sulle banconote che passavano sudiciamente di mano in mano, saldando scommesse vinte o perdute, mentre un paio d’inservienti, entrati nel ring, trascinavano via lo sconfitto.

Secondo quel che i tre del sindacato dissero ad Angelo, era Kamma’lere l’organizzatore di quegli incontri e quelli che si battevano sul ring avrebbero presto lavorato in diga. Quei match erano l’ultima tappa del percorso di selezione, in palio un posto da manovale, da sterratore, da minatore; lo sconfitto poteva riprovarci al prossimo reclutamento. Per assistere ai combattimenti si pagava un biglietto, il resto dei quattrini veniva dal giro di scommesse.

 

Quand’ebbero portato fuori il vecchio e dopo che il giovane, consumato il suo rapido trionfo, uscì dall’arena ridente e appena un po’ insanguinato, gli inservienti tornarono e s’infilarono tra le corde e rastrellarono la sabbia per prepararla all’incontro successivo. Salirono sul ring un enorme ciccione e un ometto nervoso e segaligno; e Angelo, curiosamente, non se ne andò. Ormai aveva visto il necessario, sapeva esattamente quel che doveva fare. Non c’era nessun bisogno di assistere al combattimento nuovo o a quello di poi. Avrebbe potuto tornarsene al suo alloggio a meditare, per prepararsi a farlo… ma invece restò, non sapeva bene neanche lui perché.

Quel che accadeva lì dentro, all’interno di quel capannone asfissiante e tra la folla che vi s’assiepava, l’attraeva, non poteva negarlo. C’era, certo, il fascino dell’arena, la sua dimensione diffusa, rumorosa e spettacolare che sarebbe sopravvissuta, sarebbe uscita di lì, sulla scia delle urla e dell’eccitazione del pubblico; ne sarebbe venuta una croce o un’impronta su uno di quei contratti d’assunzione, assieme all’insignificante trasferimento di kwacha da una tasca all’altra, secondo quel miserabile giro di scommesse; oltre, naturalmente, a quel ch’era il suo proprio compito, di Angelo, per l’indomani; tutto questo sarebbe uscito di lì, e non aveva nulla a che fare con l’altra dimensione, il fatto essenziale che si produceva e moriva lì dentro, sulla sabbia del ring, tra quei due; questo era scisso, esisteva soltanto lì e sarebbe rimasto dentro quel capannone di lamiera, non ne sarebbe uscito nulla fuori. E la cosa saltava di continuo tra questi due estremi. Ma non bastava, c’era dell’altro. Qualcosa di oscuro e crudele, che avrebbe condizionato l’avvenire di tutti loro. Era curioso che da un fatto in sé positivo e banale – sfruttare una situazione naturale favorevole e dell’ingegno umano, per offrire a una comunità acqua ed energia facilmente accessibili – scaturisse questo. Ma accadeva sempre e Angelo si chiedeva perché, dove e come s’innescasse la mutazione…

Salirono sul ring gli altri due. Uno era grasso, ma grasso… faticava a muoversi. Rotoli di ciccia formavano sui pettorali flaccide mammelle e ricadevano sul ventre e sui fianchi in una specie di drappeggio, fino a coprire il minuscolo sesso che ogni tanto appariva tra le pieghe. Era grasso, ma grasso… L’altro era invece smilzo e nervoso, un tipetto tutto pepe che pareva incapace di star fermo, si dimenava anche al momento dei saluti, quando si diedero la mano – se si poteva chiamare così quel congiungimento di membra incompatibili, che parevano appartenere a specie diverse, uno stecco ungolato e un untuoso ammasso di lardo – e cominciarono a darsele. Il piccoletto era vivace e cattivo, s’agitava, saltava e graffiava. Il grassone era lento e tardo e subiva, con una faccia stupita, le unghiate di quel piccolo diavolo che tirava agli occhi, al naso, dove sapeva di far più male. Il grassone non opponeva nessuna difesa, non pareva in grado di parare nulla e men che meno di offendere. Se ne stava lì, sempre più stupito, sotto la gragnuola di graffi che gli pioveva addosso, segnandogli la faccia, che cominciò a sanguinare e presto fu tutta rigata di rosso. Il grassone era stupefatto, non si spiegava quel sangue, e barcollava, ondeggiando pericolosamente, mentre il piccoletto gli saltellava intorno, piazzava le sue unghiate e si ritirava. Finché il grassone s’inclinò su un fianco, abbassandosi ed esponendo il volto; e il piccoletto si fece sotto e lo graffiò in profondità, agli occhi e al naso; ma il grassone, come se all’improvviso gli mancasse un appoggio, si piegò tutto e cadde… e il piccoletto non riuscì a schivarlo. Nella foga di finirlo, non colse il pericolo di quella massa incombente che aveva perso il suo baricentro e gli veniva addosso, o quando lo colse fu troppo tardi. Gli finì sotto e cominciò ad annaspare, sepolto dal peso. Cambiò faccia, strabuzzò gli occhi, gli colarono dalla bocca e dal naso dei liquidi, stirò le labbra e cacciò fuori la lingua; e certo doveva aver dentro qualcosa di rotto, quando gli inservienti salirono sul ring a tirarlo fuori prima che finisse stritolato sotto il ciccione, che – sempre più stupefatto – fu proclamato vincitore.

Dopo quel match salirono sul ring un ragazzino e un monco. All’uomo mancava tutto il braccio sinistro, amputato quattro dita al di sopra del gomito. Il resto del corpo, però, era possente: due spalle da bue, pettorali incisi, collo taurino. Il giovane era elegante, agile, ben formato. Ma si capì subito, fin dai primi colpi, che col monco non ce l’avrebbe fatta. Era un bel giovave e si muoveva con armonia. Aveva un viso dai lineamenti puri e lunghe braccia elastiche che per un po’ tennero l’avversario a distanza, colpendolo di quando in quando, mentre il ragazzo gli danzava intorno con quei passi così eleganti e leggeri. Ma i suoi colpi erano carezze sulla faccia dura del monco che pareva scolpita nella selce e fissava il ragazzo con determinazione e odio, cercando di spingerlo verso le corde. Il ragazzo era agile e leggero, colpiva e si ritirava, lesto; ma forse era un po’ troppo attento all’eleganza dei suoi movimenti e alla leggiadrìa di quella scherma, che tutti ammiravano, o forse semplicemente non si rese conto di quanto fossero vicine le corde. Sicché, quando il monco riuscì chiuderlo nei pressi dell’angolo, era tardi. Se ne rese conto con una lieve, fatale esitazione; perché appena cercò di scivolar via, sfilando tra il monco e la fune di canapa che delimitava il ring, quello spazio ormai era chiuso dal torso massiccio dell’altro, che stese il suo moncherino a ostruire proprio l’unico pertugio libero in cui il ragazzo cercò d’infilarsi, quella strettoia che gli parve la sola via di fuga e invece era una trappola. Il moncherino scattò in una stretta ferrea, giusto all’altezza del collo. E quando il ragazzo s’abbassò, cercando di sfilarlo, glielo chiuse, stringendo la gola contro la cassa toracica, in una presa ch’era una morsa, cui il ragazzo non riuscì a sottrarsi. Allora, con l’altra mano, il monco cominciò a picchiare. Teneva la faccia del giovane bloccata sotto l’ascella, stretta tra il moncherino e il petto, e picchiava duro con l’unico pugno che aveva. E presto quella faccia dai lineamenti così puri fu un pasticcio di sangue. Poi cominciò a disfarsi, i lineamenti cedettero e si disciolsero sotto la pelle rotta, che cominciò a lasciar uscire della poltiglia chiara, mentre il monco continuava a pestare e pestare; e ne avrebbe fatto davvero solo poltiglia, nient’altro, se gl’inservienti non fossero entrati nel ring a bloccarlo. Riuscì a sfigurarlo un po’, il ragazzo non sarebbe mai più stato bello ed elegante come prima. Poi gl’inservienti rastrellarono la sabbia e cancellarono, rovesciandovi quella pulita da sotto, le macchie di sangue che galleggiavano in superficie. Ararono bene e prepararono il ring al match successivo.

Assistette a tutti agli incontri, fino alla fine, dodici in tutto – tanti erano i posti da sterratore, da manovale, da minatore che s’assegnavano in quella sessione di reclutamento – e verso le due del mattino, quando l’ultimo match finì, se ne tornò al suo alloggio a dormire qualche ora, prima d’affrontare il compito dell’indomani.

Al mattino prese un appuntamento e si recò a Lilongwe, a parlare con quelli del ministero. Nemmeno in quel pezzo d’Africa in quegli anni, nei dintorni dello stato più repressivo del continente, roba del genere si poteva più fare. Ma non fu facile liberarsi di uno come Kamma’lere.

Quando tornò indietro, a W., accompagnato dalla polizia e dagli ispettori del ministero, Kamma’lere era scomparso, il suo alloggio era deserto. Qualcuno doveva averlo avvertito. Vi fu omertà, nella township, sulla sua fuga; nessuno volle parlare di quel ch’era accaduto la sera prima nel capannone; ciò che, a detta dei tizi del sindacato, accadeva da alcune settimane in qua, tutte le volte che la Compagnia assumeva. Gli ispettori del ministero e i tizi del sindacato faticarono un bel po’ a raccogliere qualche testimonianza appena circostanziata su cui imbastire il caso in tribunale.

Quelli della polizia, che cercavano Kamma’lere, ebbero ancor meno successo dei sindacalisti, degli ispettori del lavoro e dei magistrati. Secondo loro Kamma’lere poteva essere in uno qualunque dei villaggi del distretto, sopra al Plateau oppure ai piedi dell’escarpment. Quello era il suo territorio e lì, in tutta la regione, lui era un capo temuto e protetto, ci sarebbe voluto un sacco di tempo a prenderlo. Il commissario se ne tornò a Lilongwe a organizzare la caccia, ma insistette per lasciare una pattuglia di agenti di presidio a W.. Il giorno dopo Angelo capì perché.

Lo seppe con certezza solo l’indomani, però l’intuì già quella notte, in cui dormì male o non dormì affatto, indovinando quel che si preparava… aveva a che fare con ciò che aveva colto dentro quel capannone, assistendo a quei corpo a corpo. La maledizione che gravava sul Paese, la triste e ricorrente sorte di non riuscir mai a costruire senza al tempo stesso distruggere; di fare sempre un passo avanti e uno indietro, perché tutto quel che vi si faceva di buono nasceva dal male, dalla violenza, e tornava inesorabilmente, dopo un irrisorio intervallo di pace, alla violenza.

Durante la notte scoppiò una rivolta nella township. Il magazzino del cantiere fu saccheggiato e l’officina e le macchine danneggiate. S’erano formate delle specie di milizie, nella township, gruppi di giovani armati di bastoni e panga – i loro machete – capeggiati dagli uomini di Kamma’lere. Avevano preso il controllo della città operaia. Il campo dei bianchi fu cinto d’assedio, vi furono sassaiole e azioni dimostrative fuori dalla recinzione e per tre giorni nessuno poté entrarne o uscirne. La polizia mandò rinforzi. Prima agenti ordinari, per presidiare l’area e contenere la rivolta. Poi un corpo speciale, con le divise nere, per soffocarla.

Fu una piccola rivolta, in realtà, un episodio locale, nulla che meritasse più di qualche colonna sui giornali della capitale. E nessuna risonanza fuori dal Paese. Ma ci volle comunque un po’ di tempo a domarla e fortunatamente fu necessario esplodere solo qualche colpo in aria, a scopo intimidatorio; per il resto, bastoni e manganelli dei corpi speciali in divisa nera bastarono. Poi quei corpi se ne andarono, tornarono nelle loro caserme a Lilongwe. E la polizia ordinaria riprese il controllo del territorio e per oltre una settimana presidiò l’area, per impedire che s’accendessero nuovi focolai.

Quando fu restaurata la calma, su indicazione delle autorità, sotto l’egida del ministero e col presidio della polizia, si procedette a quel ch’era chiamato ‘lock-off’: tutto il personale locale, dal primo all’ultimo, fu licenziato. Tabula rasa. Il cantiere restò chiuso diversi giorni, durante i quali la polizia, coi suoi informatori e coi suoi metodi, redasse delle liste. Quando il cantiere riaprì, cioè dopo che ad Angelo fu assegnato un nuovo capo del personale nominato dal ministero, il novanta per cento delle maestranze fu riassunto, quasi tutto a paghe e ruoli invariati. Furono epurati solo quelli che, in base alle informazioni della polizia, erano stati i partigiani di Kamma’lere, i caporioni che avevano fomentato la rivolta.

Kamma’lere fu arrestato mesi dopo, sul Plateau, e per qualche tempo la sua fazione non fu più in grado di nuocere. Questo diede tempo alla costruzione di riprendere e proseguire e di lì a cinque anni la diga fu finita. Quando lo fu, Angelo lasciò il Paese. Un Paese che non amò. Non se ne informò più, dopo. Quindi non seppe per quanto tempo durò quella pausa di pace, prima che tutto fosse distrutto un’altra volta.


Le fotografie sono di Deborah Raimo.

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