Ida Meneghello
Diario di una spettatrice

L’uomo che amava i cani

“Dogman”, il nuovo film di Luc Besson, non ha nulla di violento: è come una favola in cui l’impossibile diventa possibile, in cui un uomo ferito nel corpo e nell’anima scopre in sé la magia di poter comunicare perfettamente con i cani

Il nuovo film di Luc Besson, appena giunto in sala da Venezia 80, avrebbe dovuto intitolarsi L’uomo che amava i cani, parafrasando il famoso L’uomo che amava le donne di François Truffaut. Dogman è un titolo fuorviante, almeno per quanti hanno visto l’omonimo film di Matteo Garrone: perché ti aspetti di vedere una storia e dopo qualche scena scopri che vedrai un altro film. Quel titolo e la foto scura della locandina in cui il profilo del protagonista si sovrappone ai profili dei cani, predispongono lo spettatore alla storia violenta del bambino chiuso nelle gabbie con i cani affamati per i combattimenti clandestini da un padre e un fratello brutti, sporchi e cattivissimi. Ma questo, diversamente dal film di Garrone, è solamente il prologo, il lungo e drammatico flashback da cui tutto ha origine.

La storia che ci racconta Besson è invece un’altra, ha sì le tinte oscure del dramma (bellissima la fotografia), ma è una favola in cui l’impossibile diventa possibile, in cui un uomo ferito nel corpo e nell’anima scopre in sé la magia di poter comunicare perfettamente con i cani, e i cani capiscono le sue parole, interpretano i suoi sguardi e agiscono come lui vuole. Perché “ovunque ci sia un infelice, Dio invia un cane” come recita l’esergo di Lamartine citato da Besson. Ci sono situazioni incredibili (e certo il training degli animali dev’essere stato assai complicato) in cui pare di assistere all’incanto disneyano della nostra infanzia, un cartoon dove il sogno diventa realtà grazie a un regista capace di spostare il punto di vista al livello dello sguardo degli animali, facendoli recitare come attori meglio di tanti umani. Perciò questa pellicola è una favola, la favola dell’amore più forte del dolore, la favola dell’uomo che amava i cani.

E tra i cani di tutte le razze e di tutte le taglie giganteggia lui, Caleb Landry Jones, prevedibilmente in pole per l’Oscar: devastato dalla vita, queer paraplegico capace di diventare Édith Piaf in una scena da pelle d’oca, infantile e diabolico con il trucco di Joker sul viso gonfio di alcol e disperazione. I cani lo capiscono e lo amano, lo circondano e si accucciano addosso a lui nei momenti più drammatici, leccano le sue ferite e attendono pazienti gli ordini che arriveranno. Perché Douglas è in fondo un giustiziere, lui che ha conosciuto tutta la crudeltà del mondo non permette che altri innocenti subiscano la stessa sorte e i cani fanno ciò che lui non può fare. Oltre alla fotografia che impasta meravigliosamente tutte le gradazioni dell’oscurità con squarci improvvisi di luce, c’è una colonna sonora che fa venire voglia di cantare, da Sweet dreams (Eurythmics, Annie Lennox eh!) alla Piaf di “Non, je ne regrette rien”. E per il finale preparatevi ai brividi.

Ps: quando sono uscita per strada a Bologna mi sono accorta dei cani, non ne avevo mai visti così tanti, sono ovunque, in mezzo a noi, trotterellano, ci aspettano, ci guardano, tutti diversi, unici, bellissimi.

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