Andrea Carraro
Editoria di frontiera

Contro i ponticellari

Ponticelli e la camorra, il giornalismo d'inchiesta e la lotta per diffondere il senso del "bene": incontro con Luciana Esposito. «Se il camorrista di turno inneggia all’affiliazione e si fa portatore di un messaggio altamente diseducativo, non va censurato, ma condannato e denunciato»

Mi sono imbattuto nel libro di Luciana Esposito Nell’inferno della camorra di Ponticelli – “Napolitan – editrice Iod, collana Cronisti scalzi, dedicata alla memoria di Giancarlo Siani – come giurato del premio Sandro Onofri per il reportage narrativo 2023, – un libro-inchiesta molto accurato e affidabile sulla Camorra a Ponticelli, periferia orientale di Napoli, nell’arco di mezzo secolo, – da dopo il terremoto dell’80 fino a oggi. Un’inchiesta storico-giornalistica condotta dall’interno, diresti, dall’osservatorio rappresentato dalla rivista on line Napolitan.it, fondata dalla giornalista nel 2014, e inaugurata quasi subito da un’aggressione camorristica, in seguito alla pubblicazione di un articolo che trattava dell’omicidio della donna-boss Annunziata D’amico.

Vuoi raccontare come si è svolta, e il successivo processo, dal quale, ricordiamo, gli aggressori sono usciti condannati…

Non sospettavo che fossi esposta a un pericolo. Non avevo ricevuto minacce né intimidazioni, quindi ero uscita di casa, come tutte le mattine, con l’unica intenzione di svolgere il mio lavoro. E il mio lavoro quel giorno consisteva nel documentare un certo evento del quartiere. L’aggressione è iniziata nel Parco Merola, dove era in corso un progetto di riqualificazione della zona che prevedeva la realizzazione di alcune opere di street art… Giuseppe Cirella scese dalla sua auto e si fiondò su di me. Così iniziai a scappare, sperando di riuscire a raggiungere la pattuglia della Polizia municipale in fondo alla strada. Ma il Cirella e sua moglie, mi raggiunsero con la macchina. Lei si scagliò contro di me urlando: “Vieni con noi, sali in macchina, ti portiamo noi dai carabinieri, così lo spieghi a loro cosa volevi fare con mio marito!”. Con l’intento di simulare “una lite di gelosia tra donne” per screditarmi subito e impedire che la gente intervenisse. Raggiunsi in qualche modo la polizia municipale, ma i miei aggressori continuarono ad aggirarsi in zona forse per aggredirmi nuovamente. O forse per cercare di sequestrarmi. Questo non lo saprò mai.

E poi il lungo processo…

Sette lunghissimi anni, nel corso dei quali, a rendermi la vita difficile, non hanno concorso solo le minacce della camorra, ma anche la delegittimazione di alcuni “colleghi” e dei cosiddetti “professionisti dell’antimafia” che hanno vergognosamente parteggiato per i miei aggressori. Un processo che ho vissuto da imputata e non da parte lesa. La sentenza è stato un atto liberatorio che ha conferito giustizia al mio lavoro e al mio impegno quotidiano, ma soprattutto alla mia dignità di donna, ripetutamente vilipesa.

Ponticelli

Nel tuo libro ti sei inventata un efficace binomio: ponticellesi/ponticellari: ponticcellesi (gli abitanti, i cittadini di Ponticelli), mentre i ponticellari, gli abitanti di ponticelli – scrivi – “che si lasciano ispirare dal verbo della camorra”… una dicotomia utile a raccontare le due anime del quartiere…

Nessun cittadino onesto merita di essere associato alle brutture della camorra, solo perché vive in una terra di camorra. Per questo motivo ho distinto i ponticellesi che rappresentano la parte sana del quartiere, dai “ponticellari”: i camorristi, il tumore della nostra terra.

Si segnala – il tuo libro – per alcuni ritratti (maschili e femminili) penetranti e vividi di camorristi, anzitutto il ritratto di Ciro Sarno, quasi un Robin Hood che all’inizio toglieva ai ricchi per dare ai poveri, ‘o sindaco, la cui figura mitica viene fuori negli anni in cui Napoli si trova “in balia della faida fra la nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo e la nuova famiglia…”. Con quel leggendario furto natalizio nel supermercato, da cui tutto comincia, compiuto per fare un regalo alla madre e alla famiglia disagiata. È vera quella domanda che Raffaele Cutolo gli rivolge con cui cominci significativamente il tuo libro, “Secondo te è giusto che i siciliani debbano comandare a Napoli?” Osservi che la camorra a Ponticelli nasce così… 

Sappiamo bene che la camorra è un fenomeno secolare, ma credo che sia corretto affermare che in seguito all’incontro tra Raffaele Cutolo e Ciro Sarno, Ponticelli si è trasformata da succursale della camorra a quartier generale. Non a caso, l’impero costruito da ‘o sindaco ha retto per oltre trent’anni nel corso dei quali Ponticelli divenne il cuore pulsante dell’intera camorra napoletana: da Napoli est a Napoli ovest, passando per il centro cittadino, senza tralasciare l’entroterra vesuviano. Un dominio totale e incontrastato che ha fortemente segnato quel contesto.

Lo racconti come un personaggio dalle molte sfumature, Ciro Sarno, ‘o sindaco, dotato di carisma… intanto perché ‘o sindaco? –

Quel soprannome gli venne attribuito nell’era del post-terremoto dell’Ottanta, da cui scaturiscono una serie di eventi propizi che favoriscono l’ascesa sua e del clan Sarno. Per garantire una sistemazione ai terremotati nascono i grandi agglomerati di cemento di edilizia popolare… Una bomba sociale. Il paesaggio di Ponticelli cambia in breve tempo da centro agricolo a grande agglomerato urbano… Ciro ne approfitta, ci costruisce la sua fortuna. Approfittando del suo carisma, della forte personalità, che ipnotizzano migliaia di affiliati esaltati pronti a morire per lui… e della gente comune che lo osanna come un leader. Da latitante si inventa un festival della canzone neomelodica nel rione de Gasperi, dove lui è nato, con lui presente da qualche parte, ma nessuno lo vide e ciò alimentò ulteriormente la sua leggenda. Si favoleggiò che i cantanti venissero pagati con la coca…

E poi un altro evento eclatante, l’omicidio di due bambine del quartiere, i cadaveri torturati seviziati dati alle fiamme e buttati fra i rifiuti…. Sul greto del fiume Pollena, nel rione Incis. Molto ben ricostruita nel libro – quasi un racconto nel racconto – questa vicenda, con l’identikit dell’indiziato numero uno, “Tarzan tutte lentiggini” soprannome datogli dalle bambine, chiamato anche Maciste per la sua corporatura massiccia… insomma il “mostro di Ponticelli”…

La ricostruzione del “massacro di Ponticelli” riportata nel mio libro ha contribuito a portare la Commissione Parlamentare Antimafia a riaccendere i riflettori sul caso. La camorra mirava a colpire l’autore del delitto per inscenare una plateale dimostrazione di forza, arrivando a sostituirsi allo Stato.

E non dimentichiamo l’episodio del prete pedofilo…

Grazie a Arturo Borrelli, alla sua coraggiosa denuncia, Arturo vittima di abusi sessuali da parte di un prete, del suo insegnante di religione, e sacerdote di una chiesa di Ponticelli, Don Mura. Un prelato al di sopra di ogni sospetto.

Il boss Sarno finisce presto in carcere, diventa collaboratore di giustizia, si pente, per ottenere vantaggi ma anche per vanità personale, per scrivere il finale, – affermi – con le sue stesse mani, garantendosi “un’uscita di scena eclatante”. Per continuare a comandare anche incarcerato, a distanza, nel suo regno, nel quartiere di Ponticelli.

Il detenuto Ciro Sarno ha avuto la fortuna di incontrare degli educatori che hanno guidato e ispirato la sua redenzione, motivandolo negli studi affinché potesse coltivare quella che sembra essere la sua reale vocazione: la storia dell’arte. Il fatto che le strade di Spoleto accolgano una fontana realizzata da un sanguinario boss della camorra deve farci riflettere soprattutto circa l’importanza del percorso riabilitativo di un detenuto tra le mura carcerarie.

Luciana Esposito

La fascinazione del male, nel racconto della Camorra, ti spaventa? E se sì, quali strategia hai adottato nel tuo lavoro, – per scongiurare il rischio della spettacolarizzazione/esaltazione/mitizzazione della camorra e della violenza camorristica?

Raccontando anche il Bene, intanto, non dimenticandolo per strada, per così dire, per combattere la sfiducia il disprezzo verso lo stato, verso le forze dell’ordine…. Sono del parere che raccontando la realtà così come appare, non si corre il pericolo di trascendere nella spettacolarizzazione. Per quanto cruda, desolante, sanguinaria, spietata, la realtà camorristica va raccontata nella sua bruta essenza, senza reticenze: questo, a mio avviso, è il compito di un cronista. Non sottrarre né aggiungere nulla ai fatti. La vita di un camorrista disegna puntualmente il medesimo percorso, questo non è necessario sottolinearlo, perché emerge dalle loro storie. Non a caso, i protagonisti del mio libro sono tutti morti o condannati al carcere a vita. Allo stesso modo credo che per sbugiardare il falso mito del boss-eroe altro non bisogna fare che raccontare le storie delle vittime innocenti della criminalità. Morti ingiuste, infami, disonorevoli di cui un camorrista non può vantarsi, ma solo vergognarsi. Una macchia indelebile che intacca “l’onore” del boss, soprattutto se accompagnata dall’indignazione dell’opinione pubblica. Inutile sottolineare che anche a Ponticelli ci sono ragazzi che frequentano la scuola e che si iscrivono all’università o che si organizzino incontri di lettura e spettacoli teatrali. Almeno io, preferisco soffermarmi sul racconto di quella forma di “bene” che può avere una rilevanza sociale e che non rischia di schernire la mia gente, i miei “ponticellesi”, agli occhi di un cittadino di Bolzano. A tal proposito, anticipo che il primo capitolo del secondo “Inferno della camorra di Ponticelli” sarà dedicato alla storia di un ragazzo davvero speciale.

Che cos’è per te il giornalismo sul fronte della camorra, un mestiere, una missione, una vocazione? Una maledizione?

Il mio lavoro. Semplicemente il mio lavoro. Non credo di fare qualcosa di straordinario. Guardando la realtà che mi circonda, non riuscirei a vivere in un altro modo. Diversamente, sarei già dirottata su un’alternativa più comoda e meno rischiosa. Non me ne rammarico né vivo la mia vita come se addosso portassi la croce di una martire: Ponticelli aveva e ha bisogno di una narrazione continua, precisa, attenta. È un territorio che per troppi anni è stato abbandonato al suo destino e sento il dovere di colmare questa lacuna nel migliore dei modi.

In una intervista televisiva dici che la paura rappresenta anche una guida per chi svolge il tuo lavoro. Perché ti aiuta ad assumere un profilo prudente nei tuoi articoli, nei tuoi post sui social… In realtà io ho notato leggendo questo libro che tu sei spesso molto “diretta”, esplicita nei tuoi rapporti con i ponticellari, i parenti dei camorristi carcerati (pentiti o meno) con cui ti capita di interloquire… nelle chat dei social, o altrove…

No, non ho mai permesso alla paura di censurare il mio lavoro. Anche se pochi istanti prima di cliccare sul tasto “pubblica”, quando sono consapevole di divulgare una notizia che inevitabilmente susciterà l’ira dei “ponticellari”, avverto una scarica di adrenalina. La paura mi guida nella gestione della quotidianità, mi riferivo a quello. Nella scelta delle strade da percorrere per raggiungere il supermercato o dei posti nei quali recarmi per limitare al minimo indispensabile il margine di pericolo. So che se mi recassi nei rioni presidiati dai ponticellari potrei essere nuovamente aggredita o anche peggio. Motivo per il quale mi tengo alla larga da quelle realtà, pur continuando a raccontarla, grazie alle mie sentinelle. Il vero coraggio appartiene a loro: sanno cosa rischiano, se scoprono che sono miei informatori, ma ciononostante continuano a supportare il mio lavoro e questo mi esorta a onorare il loro impegno.

Ti è mai venuta voglia di mollare tutto? cambiare lavoro? Di trovarne uno meno rischioso, meno avventuroso… come lo vivono i tuoi genitori, i tuoi parenti, questo tuo impegno temerario?

All’indomani di episodi eclatanti, credo che sia comprensibile che prevalgano lo sconforto e la voglia di mollare. Lo scorso maggio, ad esempio, è stata danneggiata la mia auto, avrei voluto partire per le vacanze e non tornare più. Spesso mi capita di sognare una vita all’estero, provando a immaginarmi in tutt’altra veste, ma ad avere la meglio, alla fine, è sempre il mio lavoro, il mio impegno, che chissà dove mi porterà. I miei familiari, i miei amici più cari, ovviamente vivono malissimo tutto quello che accade. Nell’auto nuova, sul sedile accanto a quello del guidatore ho messo una mascotte gigante del calcio Napoli, perché mi ricorda le parole di uno dei miei migliori amici, un fratello per me, membro dello staff medico azzurro. All’indomani dell’aggressione del 2015, mi disse: “ricorda le parole di chi ti ama, non fare l’eroe”. Quel pupazzo incarna tale monito, perché mai vorrei che il mio impegno fosse fonte di dolore per le persone che mi amano.

È giusto usare un linguaggio semplice, accessibile a tutti, da qualche parte osservi. È giusto anche dare voce a tutti, anche ai più spietati assassini, quindi mostrare con esattezza dove sta il bene e dove il male. Tu racconti il Male, la camorra di Ponticelli, le azioni criminali, le bombe, ma anche la galassia del Bene, rappresentato dalle forze dell’ordine che cominciano a essere presenti sul territorio, o dai preti amici e sodali impegnati contro la droga e l’illegalità e i tanti che vivono onestamente.

La comunicazione è fondamentale e prima di diramare un messaggio credo che sia doveroso vagliarne il contenuto. Se il camorrista di turno inneggia all’affiliazione e si fa portatore di un messaggio altamente diseducativo, non va censurato, ma condannato e denunciato. La chiave narrativa in quest’ottica gioca un ruolo cruciale: non è importante quello che si racconta, ma come lo si racconta. E con ciò non voglio dire che la realtà va distorta, ma semplicemente analizzata andando a fondo, scavando nelle realtà da esaminare per non cadere nell’approssimazione e nel pressapochismo. Chi lavora con le parole si assume una responsabilità enorme: deve essere in grado di usarle bene e di scegliere, di volta in volta, quelle più appropriate. Ricordo che una volta, la madre di un giovane boss ucciso, mi disse: “la tua penna ha fatto più male della pistola che lo ha ammazzato”. Credo che questa frase renda bene l’idea.

Che ruolo hanno i social – che anche tu frequenti, nella rappresentazione odierna della camorra? Parli di una sovraesposizione mediatica con i video, le canzoni dei neomelodici con i loro messaggi cifrati o espliciti ai detenuti…

Nel concetto di comunicazione, i social ricoprono un ruolo cruciale. Rappresentano a tutti gli effetti un nuovo linguaggio, quello più diffuso e popolare, senza dubbio, ma anche quello più immediato. Un’arma a doppio taglio, sicuramente, della quale la camorra, le mafie in generale, hanno imparato rapidamente a servirsi per accrescere proseliti, fascinazione e consensi. Non a caso, nelle ordinanze recenti, puntualmente appaiono frame estrapolati dai social che in tal senso forniscono una serie di prove plateali, talvolta anche fin troppo eclatanti. Soprattutto su TikTok, su alcuni profili creati ad arte dai clan, assistiamo alla cronaca in tempo reale dei fatti di camorra. Rivendicazioni di agguati, ma anche messaggi che annunciano azioni violente. Una camorra istrionica e narcisista che non teme le conseguenze di quella teatralità, ma se ne nutre. Di contro, i social sono anche il mio mondo, il canale del quale mi servo maggiormente per diffondere notizie, ma anche per acquisirle. Il mio giornale online e le pagine social annesse sono diventati dei veri e propri megafoni che diffondono in tempo reale ciò che accade nel quartiere. Non di rado sono stata contattata dai diretti interpreti della camorra che mi hanno chiesto di diffondere messaggi espliciti: un camorrista vittima di un agguato, ad esempio, mi contattò mentre era ancora nella sala d’attesa del pronto soccorso con un proiettile conficcato nella schiena e mi chiese di rassicurare tutti circa il suo stato di salute. Un atteggiamento dal quale trapela l’impellente necessità di replicare al torto subito, sminuendo il valore dell’azione inscenata dai rivali. Di recente, un pregiudicato detenuto ai domiciliari fuori regione, vittima anche lui di un agguato in passato, mi ha contattato chiedendomi di annunciare il suo ritorno a Ponticelli, unitamente all’intenzione di vendicarsi. Dinamiche che, per quanto possano sembrare surreali, sottolineano la necessità di servirsi dello strumento di comunicazione più efficace e immediato, affinché i loro messaggi possano raggiungere il maggior numero di persone possibili.

Ponticelli, dici che è il quartiere più degradato di Napoli…. Hai estremizzato?, o pensi che sia proprio così…

Lo dicono i dati: oltre ad essere il quartiere densamente più popolato e più esteso geograficamente è anche quello che accoglie il maggior numero di rioni di edilizia popolare, all’incirca una dozzina distribuiti in 9 km. Un quartiere detentore di una serie di record, tutti rigorosamente negativi. Il quartiere europeo in cui si registra il più alto tasso di dispersione scolastica, oltre che di “Neet”: giovani di età compresa tra i 15 e i 23 anni che non studiano e non lavorano, ma è anche il quartiere napoletano in cui si registra il più alto tasso di malati di tumore, di minori affidati alle case-famiglia, di nuclei familiari composti da un solo genitore, di ragazze-madri e gravidanze precoci. Il quartiere in cui si registra il più basso tasso di giovani laureati. Giusto per citare i dati più significativi, perché potrei continuare…

È giusto mostrare anche l’umanità dei camorristi, dici, che emerge per esempio quando vengono arrestati… quando piangono, quando cadono le maschere… ne hai viste cadere molte?

Lo racconto sempre ai ragazzi che incontro nelle scuole. Una delle prime domande che gli pongo è: “sapete cosa fa un camorrista quando arriva in questura, dopo l’arresto?”. La risposta li lascia puntualmente con gli occhi sgranati: ‘piange’. E’ un dato di fatto acclarato: il mito del boss-leone in gabbia che incassa la condanna senza battere ciglio è una delle bufale più clamorose che circolano sui social per effetto di quell’enfatizzazione del credo camorristico, ormai dilagante. Soprattutto i giovani trascorrono gran parte delle giornate chiusi in cella a piangere, per sottrarsi alla galera sarebbero disposti a tutto e molte volte il pentimento è un escamotage, non una scelta supportata da un reale sentimento di ripudio verso i crimini compiuti. “Puro opportunismo” per dirla con le parole di Ciro Sarno. Ai ragazzi dico sempre: fate in modo di ammirare la meraviglia del mare, passeggiando sul lungomare più bello del mondo, da giovani liberi.

Hai deciso di fare la giornalista impegnata contro la camorra, racconti, quando hai assistito a un drammatico episodio scolastico: quando hai visto morire un tuo compagno… vuoi raccontarlo?

Paolino era la personificazione della voglia di vivere, ma anche della legalità. Lui sì che è morto per servire un ideale. Ha pagato con la vita il diniego di consegnare lo scooter ai due malviventi che, all’uscita del liceo, del “nostro” liceo, intendevano rubargli lo scooter. Era già accaduto pochi giorni prima, fuggì spedito verso la caserma, identificò i rapinatori dalle foto segnaletiche e li fece arrestare. Quel sabato intendeva fare lo stesso, ma quei ceffi speronarono la ruota posteriore del suo scooter mentre lo inseguivano, provocandone la morte. Una settimana dopo sarebbe diventato maggiorenne. Mi trovai sul luogo dell’incidente pochi minuti dopo, insieme a molti altri compagni di scuola che tornavano a casa e assistemmo agli ultimi istanti di vita di un nostro amico, ucciso da due rapinatori partiti da Ponticelli. Quel giorno, al mio amico Paolino, feci una promessa: non l’avrei mai dimenticato. Sto cercando di onorare quella promessa ogni giorno, mantenendo in vita quegli ideali nei quali anche lui credeva fermamente e per i quali è morto. A lui ho dedicato il mio secondo libro, in occasione del ventennale della sua morte, lo scorso aprile. È stato difficile e doloroso lavorarci, ma era necessario, oltre che doveroso.

Un altro ritratto che mi ha colpito è quello di Carmine d’Onofrio, figlio naturale di Giuseppe De Luca Bossa, frutto di una relazione extraconiugale  che il fratello di Tonino o Sicco aveva avuto con la madre di Carmine, Dolores… Carmine cresce come un ragazzo qualunque, scrivi, fa teatro con una compagnia di amici, gioca al calcio, ottiene un ruolo nella serie di Gomorra… va anche all’estero, a Londra, a lavorare come muratore, come barista… Un gigante buono, lo definisci, “un ragazzone dal carattere mite e giocherellone” almeno fino alla drammatica scoperta di essere figlio di un camorrista.

Sì, fu una fatale rivelazione, che lo mette in crisi e gli fa cambiare vita bruscamente, si allontana dai suoi amici della compagnia teatrale; il cambiamento si vede anche dai suoi post su fb, dai suoi modi, dal suo abbigliamento, dalle sue frequentazioni. Una storia degna dalla trama di un film. Carmine lega con il cugino Tonino o sicco… la trasformazione fra Carmine Onofrio in Carmine D.L.B., diventa il factotum del clan, assoggettandosi a suo cugino Chicco che lo comanda a bacchetta. La sua ascesa sulla scena malavitosa è rapida, mentre vive una relazione segreta, la quale racconta il cambiamento di Carmine, le sue azioni criminose, le bombe finché gli sparano alle spalle, sette colpi calibro 45, quando ritorna a casa con la fidanzata, che ne esce indenne perché lui la protegge con il corpo… Sembra la trama di un film. L’assassinio di Carmine è stato vissuto da tutta la comunità come una sconfitta, un fallimento! Una storia che lascia un grande amaro in bocca, ma anche un’eredità pesantissima, consegnata a suo figlio che porta il suo stesso nome, malgrado non l’abbia mai riconosciuto e sia stato condannato a crescere senza di lui. E’ la storia di un ragazzo che era riuscito a ritagliarsi un posto ‘normale’ nella società, fino a quando non ha assecondato il richiamo del sangue e che ben spiega come e quanto la camorra sia capace di fagocitare giovani vite in poco tempo.

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