Fabio Ciriachi
A proposito de "La torre di Ermengarda"

Giallo medioevale

Il nuovo romanzo di Maria Teresa Guerra Medici affronta un nodo cruciale della storia medioevale: il conflitto tra Papa Gregorio VII e l’Imperatore Enrico IV di Franconia. Ma dietro allo schermo della grande storia si nascondono i destini degli uomini

La torre di Ermengarda di Maria Teresa Guerra Medici (Manni, 269 pagine, 20 Euro) convoca il lettore in uno dei punti più critici della storia medievale europea, quello dello scisma tra Chiesa e Impero che vede confliggere, fino alla resa di Canossa, il Papa Gregorio VII (nella miniatura qui sopra) e l’Imperatore Enrico IV di Franconia. Nel muro contro muro, l’Imperatore era arrivato a dichiarare illegittima l’elezione del Papa, questi aveva risposto scomunicando l’Imperatore. La lotta tra quei due poteri aveva reso ancora più incerto il gioco delle alleanze nella delicata geografia politica del tempo; con ripercussioni che toccavano, in dettaglio, anche la vita quotidiana, come nel caso dell’interdetto papale che da un giorno all’altro obbligava i preti a separarsi dalle mogli.

Tempo dell’azione, il 1076 e 1077; luogo, la Langobardia maior dove sorge l’abbazia di Santa Reparata che il vescovo Lanfranco, con un trascorso di valente uomo d’armi, vorrebbe sottrarre alla badessa Alison di Conde la quale, invece, difende il proprio ruolo invocando lo statuto di abbazia nullius, ovvero esente dal controllo sia del vescovo che dell’autorità temporale.

In quel microcosmo femminile, rigidamente regolato dai principi della vita monastica, d’un tratto cominciano a susseguirsi morti sospette. Dapprima Maddalena, la monaca che ha realizzato l’affresco dell’Ultima Cena nel refettorio. Potrebbe sembrare un incidente, ma le successive morti di consorelle o di semplici lavoranti rende palese che si tratta di omicidi. Per vedere più chiaro in quelle vicende la badessa conta sull’aiuto della contessa di Valventosa, Gisela, arrivata all’abbazia assieme alla giovane baronessa Herrende di Altenberg, promessa sposa del marchese Bonifacio Dell’Oria. La contessa informerà Alison di Conde su quanto sta succedendo di grave nell’abbazia, ma poiché le fatiche del viaggio l’hanno costretta a letto chiede a Herrende di tenere gli occhi aperti e di informarla su tutto quanto le sembra degno di nota.

Le molte storie che da qui s’incastrano nel possente incedere della grande Storia, grazie alle profonde conoscenze specifiche dell’autrice, arrivano a tessere un complesso e preciso arazzo del tempo che permette di cogliere in pieno l’aria che si respirava allora, sia nel senso astratto di tensione emotiva, quasi un manifestarsi del genius loci, sia in quello fisico fatto di odori, luci, climi, tutti resi in modo magistrale dalla penna innamorata con cui la Guerra Medici fa muovere i suoi personaggi.

Il marchese Dell’Oria, per legarsi in matrimonio alla giovane Herrende, che di primo acchito lo ha intrigato solo per la raffinatezza dei modi, deve separarsi da Fortunata, un’amante con cui ha messo al mondo due figli “bastardi”. Socialmente inadeguata allo status del marchese la donna, però, esercita su di lui una notevole attrazione fisica. Forze diverse lo spingono in direzioni diverse, e alla luce di ciò che via via scopre, vecchie sicurezze devono essere riviste, iniziali perplessità troveranno le loro fondate ragioni per essere smentite. Inoltre, una gelosia inattesa scompiglia l’ordine di ciò che era sotto il suo controllo. Il corso della vita accelera finché l’inasprirsi del conflitto tra Papa e Imperatore, proprio quando è in procinto di essere risolto, costringe il marchese a impugnare le armi per difendere la futura sposa e l’abbazia dagli armigeri del vescovo Lanfranco, pronto a cogliere l’ultima occasione per impossessarsene prima che il ritorno alla pace lo renda impossibile.

Attorno a questa vicenda – che per il modo in cui si conclude e per le ripercussioni che avrà a lunga distanza, merita lo status di asse portante della narrazione – se ne sviluppano tante altre fatte di dolorose agnizioni, di vendette a lungo covate, di segni lì per lì incomprensibili ma la cui decifrazione avrà un ruolo determinante nel dare un volto alla responsabile dei delitti. Non manca il tema della stregoneria, subdolamente enfatizzata dal vescovo Lanfranco per gettare discredito sulla gestione dell’abbazia.

Il destino umano, di fronte alla voce grossa della Storia, sembra accelerare il suo corso. I cambiamenti inattesi sono all’ordine del giorno; il malvagio può redimersi, il virtuoso può incontrare difficoltà sconosciute, e fino all’ultimo istante è possibile determinare il modo in cui congedarsi dall’esistenza.

Forti della lingua essenziale e asciutta con cui parlano tra loro e al lettore, il gran numero di personaggi che viene e va sullo spazio ridotto della scena si presenta di volta in volta con la particolare necessità di dire la propria, di lasciare un segno, di farsi ricordare, che si tratti di adempiere una funzione, servire una causa, alimentare un intrigo. Tutti hanno il loro lessico, dicono quanto serve e non una parola di più. Non c’è tempo, lì, per il superfluo, e l’unico spazio che gli si può riservare è solo dentro la coscienza, protetto dall’impassibilità.

Si tocca con mano il clima particolare con cui è regolata la vita all’interno dell’abbazia, quel femminile ricco di severità e autorevolezza, di doti e inclinazioni, un mondo appartato che inscena relazioni – che si tratti di badessa, di converse o di novizie – all’insegna della sensibilità, del silenzioso intendersi e della fertile diplomazia; l’esatto contrario del modello maschile tutto incentrato, invece, sull’arroganza, sulla voce grossa, sull’intrigo e l’uso della forza.

Devono trascorrere novantadue pagine (su duecentosettanta circa) perché la verità sia ammessa in modo esplicito: “L’assassino, a questo punto devo dire l’assassina, si trova entro le mura del convento”; e dieci pagine dopo: “Un essere terribile si aggira tra queste mura”. Ormai il sospetto è diventato ufficialmente l’ultimo ospite (non gradito) che si aggiunge a quante già abitano l’abbazia.

Nel procedere senza tregua degli eventi, la scrittura di Guerra Medici si concede, sempre al momento opportuno, lampi di luce mai ostentati che non sfuggono, però, al godimento del lettore appassionato. Di Fortunata, l’amante di Bonifacio Dell’Oria, il vescovo Lanfranco vedendola pensa: “Ancora bella, ma non per molto, era vicina ai trent’anni: un’età che per una donna era la porta della vecchiaia, e a quella porta lei già stava bussando”. La gelosia di Adele, la sorella di Bonifacio, nel vedere le attenzioni riservate dal fratello alla futura sposa così viene raccontata: “Adele seguì la scena con umile distacco mentre i muscoli del viso obbedivano alla richiesta di un sorriso”. Delle mani della monaca Guta, che le dà informazioni su una dolorosa vicenda nei trascorsi dell’abbazia, Gisela pensa: “Mani pesanti, rozze, le dita grosse sembravano appena accennate, come se il cesellatore si fosse improvvisamente stancato e avesse dimenticato di rifinirle”.  Le monache che partecipano al funerale di uno dei personaggi più disgraziati della vicenda vengono così descritte: “Un vento leggero si era levato, gonfiava e faceva volteggiare le vesti scure e i veli di tutte quelle donne, composte, rigide, i visi quadrati nella cornice del velo che copriva la testa e parte del volto. Era come se uno stormo di grandi uccelli si fosse posato sul terreno intorno alla bara”.

Dopo aver insegnato Storia del diritto italiano presso la Sapienza di Roma e Storia delle istituzioni politiche presso l’Università di Camerino, Maria Teresa Guerra Medici ha rivolto i suoi interessi sulla condizione giuridica delle donne e sulla formazione dello stato moderno.

Con questo suo primo romanzo l’autrice – dando voce al particolare mondo femminile che ha elaborato la propria ricca specificità all’interno delle abazie e dei conventi medievali (importanti, tra l’altro, il prezioso lavoro di amanuensi e la coltura delle piante officinali) – vuole aggiungere un tassello importante a quanto nel finale pensa, appena entrato l’anno 1100, la badessa di Santa Reparata: “Era bene, pensò la badessa, scrivere quelle storie, per quanto dolorose, in una cronaca fedele. Dovevano ricordare alle sue sorelle la necessità dell’armonia e la memoria di quanto era avvenuto e di come la comunità aveva saputo reagire. La voce di tutte quelle donne non poteva andare smarrita nella narrazione della storia che solo gli uomini raccontano ma alla quale anche le donne partecipano”.

 “La voce di tutte quelle donne non poteva andare smarrita”; ecco spiegato il senso plurale, come di polifonia, avvertito fin da subito nella controllata scrittura de La torre di Ermengarda, un’opera che, grazie alla lingua impiegata e alla capacità di restituire una precisa fisionomia della Storia del tempo si apprezza, e non è un paradosso, soprattutto per la sua notevole singolarità.

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