Nicola Fano
Il premio Nobel per la letteratura

Chi è Jon Fosse

Chi è Jon Fosse e perché il riconoscimento dell'Accademia di Svezia è importante: drammaturgo “tradizionale” (il suo teatro è fatto di parole), contraddice la tendenza a considerare il teatro un linguaggio superato, da rendere contemporaneo con i video e la danza...

Jon Fosse, norvegese, sessantaquattro anni, è un uomo di teatro. Il Nobel per la Letteratura che gli è stato appena assegnato è – anche – un segno lanciato dall’Accademia di Svezia: il teatro è vivo e, quando viene lasciato libero di esprimersi, ossia quando può concentrarsi sulla potenza del suo linguaggio millenario dà il meglio di sé.

Il teatro di Jon Fosse – praticamente sconosciuto in Italia, salvo che da qualche addetto ai lavori, di certo pochissimo rappresentato perché considerato un autore “di parola” – ruota spesso intorno a un tema centrale: l’assenza dei padri. Se il canone occidentale, inseguendo l’insegnento dei tragici greci, ha spesso riflettuto sul conflitto tra padri e figli, Jon Fosse porta in scena figli che forse vorrebbe confrontarsi con la generazione precedente, che vorrebbero battersi con i padri per essere, per trovare un’identità, ma invece finiscono contro un muro di gomma: i padri non ci sono più.

C’è un suo testo teatrale del 1994, Il nome, in cui campeggia una coppia di genitori di questo tipo. Vi si narra di una ragazza, Bjarne, che torna a far visita ai suoi – i quali si sono rintanati in una strana casa arroccata sul mare – per far conoscere loro il proprio futuro marito. Irrompe a questo punto sulla scena un vecchio amante della ragazza che la corteggia e la bacia davanti a tutti nell’indifferenza generale: il padre e la madre restano confinati nei loro bidoni della spazzatura, come Nagg e Nell di Finale di partita di Beckett; il promesso sposo senza protestare se ne torna da dove è venuto e la vecchia fiamma, dopo aver ottenuto quel che voleva, se ne va a propria volta. Bjarne resta sola con se stessa: la famiglia è disgregata, non è più un porto sicuro ma solo un porto sepolto.

Quello di Fosse è un atto di denuncia molto duro di una situazione sociale che ha prodotto solitudini senza scampo. L’evaporazione del padre è quella che ha lasciato i figli privi di ruolo e soprattutto nell’impossibilità di progettare una qualunque ribellione o un riscatto: è come se mancasse sempre l’occasione di compiere il salto definitivo verso la crescita, l’occasione di completare la propria formazione. E ci si ritrova come degli eterni adolescenti, incapaci di prendere decisioni o di risolvere problemi anche minimi. Fino a ritrovarsi, padri e figli, sulla stessa giostra di eterni ragazzini.

La drammaturgia di Jon Fosse – fuori dall’Italia, come dimostra il Nobel, tra gli autori più apprezzati di questi decenni – si occupa anche della sponda opposta, ossia quella dei padri. Inverno (2000) è centrato sull’incontro tra un uomo e una prostituta che si trasforma lentamente e inesorabilmente in un gioco al massacro, come se non ci fosse altra possibilità che esercitare violenza su sé e gli altri per dimostrare di essere vivi. L’Uomo, in particolare, ai primi approcci racconta del suo fallimento come padre e come individuo: non c’è dramma nelle sue parole, ma solo l’anonima descrizione di una situazione senza sbocchi. D’altra parte, proprio l’assillo di evidenziare una condizione di totale assenza di futuro è ciò che accomuna molti drammaturghi contemporanei. Spesso, i protagonisti di queste tragedie senza eroi sono figli che non sono riusciti a crescere, dietro ai quali si vedono – per comodità creativa, direi – genitori falliti, ubriachi, violenti. E i figli che, ovviamente, si specchiano in loro, sono a propria volta falliti, ubriachi e violenti.

Nel teatro di Jon Fosse c’è’ il ritratto impietoso di un mondo di solitari, di narcisi e di normali vittime di una società che ha perso ogni collante, ogni solidarietà. E tutto questo si evince dalle parole. Non paia una considerazione banale: proprio mentre la prassi teatrale, in nome dell’equivoco che vuole il suo linguaggio “superato”, insegue una presunta contemporaneità fatta di cinema, di video, di danza, la migliore drammaturgia, quella che meglio racconta la vita “contemporanea” del pubblico è fatta solo di parole. Parole scritte bene, parole da Nobel. Se ne accorgeranno anche i teatranti italiani, persi all’inseguimento di penosi filmetti, luci stroboscopiche e altre scemenze simili? Speriamo.

Facebooktwitterlinkedin