Ida Meneghello
Diario di una spettatrice

La città che non c’è

“Asteroid City”, il nuovo film di Wes Anderson con Tom Hanks è lungo e intrigante: un omaggio al gusto della finzione (tipicamente americana) dove, in fondo, nulla ha un senso concreto

“Non importa cercare il senso della storia, ciò che conta è continuare a raccontarla”, dice il regista che nella pellicola è l’alter ego di Wes Anderson. E mi pare questo il succo del suo ultimo film Asteroid City passato e molto criticato al festival di Cannes. Dico subito che invece a me è piaciuto nonostante tutto, e nel tutto metto i troppi artifici estetici (ma quelli sono la sua cifra inconfondibile), gli eccessi cerebrali di un film complicato costruito come una matrioska e pure la sua lunghezza, che se fosse stato più breve sarebbe stato meglio (come dimostra La meravigliosa storia di Henry Sugar visibile su Netflix, che condensa in 39 minuti le meraviglie di cui è capace il visionario regista texano).

Dunque, nonostante tutto, c’è una storia. Ma quale storia? Certamente una storia complicata dall’incastro dei piani narrativi, come ama fare Anderson. Una cosa è certa ed è l’anno in cui avviene, il 1955, e già questa scelta temporale dice qualcosa dell’intenzione del regista di dissacrare quell’America che mai perdeva una guerra. Il film comincia nel rugginoso bianco e nero di uno studio televisivo: il presentatore ci informa che Asteroid City non esiste, è solo il soggetto di una pièce teatrale adattata per la tv e girata in un set cinematografico che più finto non si può: nel deserto del Nevada di cartone e vividi colori pastello, ci sono un albergo fatto di bungalow, una pompa di benzina, un osservatorio astronomico, una linea ferroviaria che attraversa una strada diritta che punta verso il nulla. E c’è un cartello con la scritta Asteroid City, una cittadina sorta intorno al cratere provocato da un asteroide e dove ogni anno si premiano gli enfant prodige della scienza americana, fra cadetti dello spazio, genitori e insegnanti.

È lì che si raccolgono i personaggi di questa storia teatral-cinematografica-televisiva interpretati dalle star di Hollywood che puntualmente affollano i film di Anderson: il fotografo di guerra, il figlio geniale, le tre gemelline che hanno perso la mamma e non lo sanno, suo suocero, l’attrice famosa, la scienziata, il cantante country con la sua band, il manager, il generale, il meccanico. Non è semplice per lo spettatore sbrogliare la matassa che si ingarbuglia dentro e fuori dal set fino a convergere nell’evento straordinario che mette in quarantena la cittadina: l’arrivo degli extraterrestri con modalità che citano “Incontri ravvicinati” di Spielberg.

Che cos’è, allora, Asteroid City? Il drammaturgo che firma la pièce dice che l’opera riguarda “l’infinito e non so cos’altro”. L’infinito del nostro mondo e di altri mondi raccontato dentro le scatole finite delle quinte che si montano e si smontano, nelle inquadrature fisse in cui i personaggi dialogano come davanti a uno specchio, quel palcoscenico teatrale che è il cinema di Wes Anderson. Un cinema che fa sorridere come una favola, come il cartoon di Bip Bip che attraversa l’inizio e la fine del film, un cinema dove lo spettatore può andare dietro le quinte della finzione e scoprire l’attore che si fa personaggio e viceversa. “Non puoi svegliarti se non ti addormenti”, ripetono in coro gli attori. Ma stavolta non mi sono addormentata.

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