Daniela Matronola
A proposito di "Questo amore"

Yann e Marguerite

Torna in libreria (in una nuova traduzione di Lamberto Santuccio) la biografia parallela di Yann Andréa e Marguerite Duras. Una storia appassionante - raccontata con un ritmo incalzante - fatta di corrispondenze, incontri e tanta letteratura

Torna in libreria Questo Amore (Cet amour là) di Yann Andréa (Steiner): provvede alla meritoria riproposta l’etichetta editoriale fve nella collana Extranea, affidando la ri–traduzione all’ottimo Lamberto Santuccio, siracusano, men che trentenne, e dando giustamente spazio, in apertura di volume, a Sandra Petrignani, già autrice, pochi anni fa, per Neri Pozza Bloom, di un ricco romanzo biografico sulla divina Marguerite (Duras). In Francia il libro aveva avuto una prima edizione nel 1999 e una riproposta nel 2016 dall’editore Pauvert: le due edizioni italiane hanno tallonato l’avventura editoriale dell’opera in patria.

Due prime qualità del libro vanno evidenziate, per cominciare. Il ritmo incalzante. Il subissante arrembaggio enunciativo. Una prosa ispirata, malinconica, guizzante, tersa. E poi una specie di movimento di macchina, molto cinematografico, che ci piomba in medias res e poi arretra per inquadrare da distanza, in un’altalena ottica magistrale: oggetto, la ruggente relazione d’amore sbocciata contro ogni previsione tra un ragazzo di ventitré anni e la piccola, ammaliante signora di quasi settanta, nel 1975, galeotto un libro scritto da lei, Les petits chevaux de (I cavallini di) Tarquinia, e il film di cui pure la signora è autrice, Indie Song, presentato al pubblico di Caen, Normandia, quel certo giorno.

La signora in questione è proprio lei, Marguerite Duras. Il giovane, divoratore dei suoi libri, è Yann Andréa.

Lui la avvicina (trova il coraggio di andarle davanti), protetto dalla lettura di tutti i suoi libri, con il fervore fanatico dell’ammiratore stregato, timido per natura e intimidito, tremante, sguardo basso ma determinato a dirle che di lei ha letto tutto, e sa tutto anche del suo cinema, dunque tutto di lei ama.

È, si può capirlo, terrorizzato. Lei è una piccola leonessa. Una donna vulnerabile e felina. Scatta il legame. Che tuttavia chiede tempo: diventa leit motif letterario e biografico la scrittura, la messe di lettere che lui le scriverà. Una specie di sottomissione del giovane innamorato alla matura dominatrice.

Un ulteriore pregio del libro è anche la sua capacità di farci vedere la scrittura e la letteratura in un cono spazio-temporale intuibilmente passibile di sviluppo dunque anche di superamento anzi rovesciamento.

Yann Andréa scrive molto a Marguerite Duras tra quel primo incontro nel 1975 e il 1980, quando lei lo convocherà. E passerà da fervente ammiratore che può rivolgere alla sua beniamina una corrispondenza fitta e quasi diaristica a “impiegato di scrittura”, cioè scrivano instancabile, specie di segretario personale, districatore di tessuto letterario sotto dettatura: dice Yann Andréa a un certo punto, “Sono là per ascoltare, per battere a macchina le parole. Devo seguire, non dimenticare nulla, non una sola parola, andare veloce con tre dita, non pensare, soltanto mettere per iscritto la parola”. Bistrattato, sfruttato, brutalizzato.

Non raramente proverà lo smacco di esserci senza venir calcolato. Ma la sua incorruttibile timidezza, per natura, lo porta a stare nascosto, anzi mimetizzato, e a vivere pienamente solo il rapporto con lei, poi ad assecondarla nelle molte, apparenti bizzarrie: corse in macchina a nessun’ora, passeggiate al Bois nel cuore della notte, o clausure incendiarie al numero 5 di Rue Saint-Benoît, dove Marguerite Duras alloggia fin dal 1942 e dove tra altri transfughi aveva nascosto anche Romain Gary, al secolo Roman Kacew, lo scrittore e aviatore lituano, qualche altra volta camuffato da Émile Ajar – non a caso in un passaggio del libro Yann Andréa fa cenno diretto al titolo più noto di Gary, La vie devant soi, indicandola come condizione dalla cui sponda libera e primigenia lui e lei, Duras e Steiner, “scriveremo libri, libri assoluti, noi, in tutte le lingue, inventeremo ancora tutto, voi e io”.

Da questa condizione di solo e apparente cavalier servente, Yann Andréa diventa metà imprescindibile e irrinunciabile (molte le crisi, le separazioni furiose, le fughe per rifiatare di lui e le rivolte minimizzanti di lei) senza la cui viva vicinanza tutta la produzione di Duras dal 1980 al 1996 (muore il 3 marzo e dal 29 febbraio ha ancora un cuore che batte ma è già andata oltre), sia in fatto di libri che di sceneggiature e cinema, non avrebbe molto probabilmente visto la luce.

Il libro non è solo una biografia doppia e interconnessa tra Yann Andréa Steiner e Marguerite Duras.

È prima di tutto il resoconto di un’avventura mirabolante e divorante che ricalca, a posizioni rovesciate, l’attrazione l’incontro e la presa rapace che si verificano tra la ragazzina francese in Indocina e l’amante cinese nei due romanzi più noti di Duras (soprattutto L’amante, 1984, e poi L’amante della Cina del Nord, 1991), relazione rovente immortalata poi nella versione cinematografica di Jean-Jacques Annaud.

È uno stretto rapporto di scrittura, in cui emerge l’attitudine a una composizione non programmatica, anzi naturale, prediletta da Duras, che viveva per scrivere e scriveva come viveva: disordinatamente, lottando per trovare una linearità nello splendido incasinamento, assecondando ogni istinto o capriccio o moto istintivo, e con Yann Andréa seduto accanto, a bordo dell’ottovolante scelto come habitat irrinunciabile.

I due si scambiano anche opere: lei confeziona per lui il film L’Homme Atlantique, forzandolo a una ribalta che lui non regge; lui scrive per lei e su di lei M. D., e rievoca una terribile malattia da cui Duras è riemersa.

Ecco, gli echi, anche, contano in questo libro, e ci riportano al discorso della scrittura in prospettiva e del carattere dopotutto privato, benché inevitabilmente pubblico, di ciò che il libro racconta, tutto puntellato anche sulla sonorità, dunque sul versante linguistico e non solo di tutta la faccenda.

Il repertorio epistolare è l’ossatura fantasma del libro. Negli anni Novanta, ancora si scrivevano lettere, si inondavano le persone di missive, esisteva l’abilità di decifrare le grafie, compito a volte arduo: prima che ci rattrappissimo a “tappare” o digitare sulle tastiere, esisteva ancora il gesto umano della scrittura a mano. Yann Andréa, che nel libro è in vena di catastrofismi e apocalissi, ci rimanda indietro all’antropologia delle caverne e dei graffiti, di tutta una “letteratura per immagini” PRIMA della letteratura: tirando l’elastico del tempo e dello spazio ci obbliga a rovesciare il cono visuale e a ricordarci tempi remoti nei quali eravamo, noi genere umano, trogloditi (alla lettera abitanti delle caverne), abili a disegnare goffamente solo gesti ancestrali e misteriosi, enigmatici nella loro tautologia.

E poi c’è il lato sonoro. Un suono su tutti si impone: DURAS, nome della regione di provenienza del padre che Marguerite, nata Donnadieu, piccolina e agguerrita fin da subito, assunse come portmanteau e come passepartout soprattutto per il suono – poiché è toponimo, la S si dice, e lunga: DURÀSS. Per dirvi il grado di raffinatezza, forse persino inconsapevole, di questo libro trascinante: i suoni, la sonorità, il valore sonoro della lingua, nella scrittura e non solo, è talmente ben recepito dall’io scrivente che pian piano si accumula un catalogo di parole in inglese, a permeare qui la quotidiana conversazione tra i due magici attori, e ciò dà il senso e la misura di un processo di progressiva americanizzazione che effettivamente ha investito Parigi e la Francia, persino, o meglio soprattutto, la roccaforte parigina di Saint Germain des Près e del Café de Flore, il bistrot intellettuale dove Duras e Yann Andréa erano di casa. Dettagli che (piccolo riferimento personale) confortano una mia idea attorno alla quale sono da tempo concentrata.

Un libro che riserva molte sorprese, Questo Amore, e si legge in una escalation di trasporto, deliquio e inabissamenti, trascinati, noi lettori, ripeto, in una corsa folle che ha slanci, battute d’arresto, tuffi e salti.


La fotografia accanto al titolo è di Deborah Raimo.

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