Carlangelo Mauro
Intervista a Eraldo Affinati

Picchetti sulla sabbia

Il nuovo libro dello scrittore romano si chiude con una scheda dedicata a Sam Shepard che invita a mettere «bandiere sui pali per guidare la memoria», come facevano gli spagnoli per ricordare le terre conquistate ai Comanche. Noi, dice Affinati, siamo oggi quegli “spagnoli” bisognosi di memoria

Affinati ama le simmetrie, le costruzioni letterarie strutturate secondo un progetto preciso, un centro; ma all’interno di una ben congegnata struttura, la sua scrittura coglie, tramite analogie che sembrano a volte sorprendenti ‒ anche se mai arbitrarie ‒ nessi tra realtà diverse, tra libri ed esperienze; nodi che si compongono e sciolgono felicemente. I suoi volumi sono un sapiente equilibrio tra queste spinte centripete e centrifughe e non sono facilmente incasellabili in un genere letterario preciso. Don Milani. L’uomo del futuro, ad esempio, è un libro di viaggi, un saggio, un racconto, una biografia…, un po’ tutte queste cose. Il priore di Barbiana viene ritrovato nelle più diverse lande del mondo, nello sguardo dei giovani emarginati, sofferenti, nei bisognosi di scuola. Nella cornice di un prologo e di un epilogo, i capitoli sulla vita di Don Milani, tutti in seconda persona, hanno la numerazione pari, quelli che attualizzano il suo messaggio, ritrovandolo in giovani nelle geografie del mondo, dispari; negli uni e gli altri lo scrittore va sempre alla ricerca di “luoghi parlanti”. Sono essi in certo qual modo a raccontare… E non è certo casuale l’importanza del luogo nell’opera di Affinati data la sua nota predilezione per la poesia di Milo de Angelis (cui ha dedicato una monografia), che certo non poteva mancare nell’ultimo libro Delfini, vessilli cannonate (HarperCollins), appena uscito. Non manca nella scheda sul volume il Museo dell’uomo del poeta Plinio Perilli, con riferimento alla poesia Auschwitz ’95 ivi contenuta, il ricordo del viaggio a piedi in Polonia fatto assieme a Plinio da cui è scaturito il libro Campo del sangue, su Auschwitz, sicuramente centrale nella ricca produzione di Affinati. La scrittura di Eraldo è quindi sempre proiettata nei luoghi dove si fa la storia, personale o collettiva. Recente il suo Diario dall’Ucraina sul conflitto, pubblicato dall’Osservatore Romanoin otto puntate.

Eraldo Affinati

Per fare ancora un altro esempio introduttivo sull’importanza del progetto-libro in Affinati, vorrei citare Il vangelo degli Angeli, il penultimo volume, una ritrascrizione creativa e romanzata del Vangelo costruita in 123 capitoli di 5000 battute l’uno, tra prosa e riflessione. Devo dire che è un libro che mi ha coinvolto emotivamente, mi ha affascinato molto, per cui oltre a una intervista pubblicata sul Quotidiano del Sud, ho voluto presentarlo pubblicamente assieme agli studenti della scuola in provincia di Napoli dove insegno. Gli studenti l’hanno apprezzato, hanno discusso in classe «dell’esistenza dell’oscuro falegname ebreo che ha spezzato la storia in due: prima di Cristo, dopo di Cristo», come scrisse Vittorio Messori nel suo classico Ipotesi su Gesù (1976). L’ultimo, imponente libro, di Affinati è di 756 pagine, organizzato in 21 capitoli tematici ‒ che seguono a due scritti introduttivi ‒, ognuno ispirato a un tema: “Adolescenza”, “Amicizia”, “Antenati…”, per finire con “Scuola”, “Senilità”, “Tempo”. A ogni tema seguono saggi, poesie e schede di libri (frutto anche dell’attività giornalistica di Affinati, dal 2019 al 2021 e in passato). Oltre 200 gli autori presenti.

Partiamo dal titolo: Delfini, vessilli, cannonate, tratto da un verso di Seferis. Perché questo titolo?
Ho sempre molto amato Giorgos Seferis, che sin da ragazzo leggevo nelle leggendarie traduzioni di Filippo Maria Pontani: conservo ancora un vecchio Oscar Mondadori tutto stropicciato con alcuni miei appunti estemporanei che scrissi a diciassette anni. In particolare quel verso mi elettrizza perché esprime un’emozione lirica in cui mi riconosco. I delfini evocano un’atmosfera marinara di libertà infinita (a tale proposito Joseph Conrad è un autore per me fondamentale, nel libro ho inserito anche un mio pellegrinaggio sulla sua tomba nel cimitero di Cambridge). I vessilli sono gli stemmi araldici della letteratura, le bandiere degli scrittori che ci hanno formato (tale espressione è presente anche nel mio libro d’esordio: Veglia d’armi, dedicato a Lev Tolstoj). Le cannonate stemperano la possibile arcadia nell’amara consapevolezza del male umano.

C’è per me un termine chiave in Delfini, vessilli, cannonate che potrebbe sintetizzare questa vasta opera, termine che ricorre nello scritto introduttivo Avventure da un mondo all’altro: «Nuovamente le opere, antiche, moderne e contemporanee, nelle quali abbiamo trovato e lasciato un po’ di noi stessi, ci chiamano, in una fantastica assise, al fatale rendiconto». Di quale «rendiconto fatale» si tratta?
Se la letteratura non è carne e sangue, si riduce a essere solo biblioteca o, peggio ancora, semplice intrattenimento. Il “fatale rendiconto” è quello a cui ti chiama ogni scrittore che tu reputi decisivo: il classico col quale misurarsi, ma anche il contemporaneo su cui scommettere. Perché da ragazzo scelsi Lev Tolstoj? Evidentemente in Guerra e pace cercai le risposte che non riuscivo a formulare sul senso della vita. Perché ero diventato amico di Pierluigi Cappello? Forse in quel giovane uomo costretto a vivere in carrozzina dopo un incidente di moto avevo riconosciuto un po’ della mia solitudine adolescenziale. Perché certi libri di Friedrich Dürrenmatt continuano a interpellarmi? Con ogni probabilità grazie a essi scopro l’insufficienza della verità giuridica. Perché amo un poeta come Philip Larkin? Forse sento in lui una lacerazione che riconosco mia. È questo il fatale rendiconto che la vera letteratura ci chiede.

Traggo questa citazione dal libro: «se facciamo riferimento ai loro coetanei del passato, con ogni probabilità i giovani di oggi leggono di più, sebbene in maniera estemporanea: i social glielo impongono». Da docente a docente (lo è stato per tanti anni) le chiedo dei suggerimenti su come utilizzare didatticamente questo libro, così ampio e variegato, a scuola, come strumento per migliorare la capacità di lettura.
Sarebbe stupendo se Delfini, vessilli, cannonate potesse risultare utile a scuola. Mi basterebbe accendere la curiosità in qualche adolescente per ritenermi più che soddisfatto. Però, come lei giustamente dice, dovrei avere la collaborazione dei docenti. Si potrebbe partire col leggere ai ragazzi uno dei tanti reportage compresi nel libro: ad esempio quello in cui racconto il viaggio che ho fatto a Khouribga, in Marocco, insieme a Mohamed, un mio scolaro della Città dei Ragazzi; oppure un altro, dove ricostruisco la passeggiata di un giorno a Pechino, quando attraversai l’intera capitale cinese; o il pellegrinaggio sulla tomba di Melville, nel camposanto del Bronx, a New York. Una possibilità ulteriore potrebbe essere quella di leggere loro le ventuno parole che compongono i capitoli: adolescenza, famiglia, padre, madre…. Aprire una discussione preliminare sul significato di questi concetti. Poi leggere gli studi che ho dedicato agli scrittori riuniti intorno al singolo polo tematico. A quel punto, analizzare la mia poesia finale chiamando gli studenti alla sua interpretazione per verificare quale possa essere stata l’indicazione di fondo che ho voluto dare.

Il libro si conclude con una scheda intitolata Nella terra dei Comanche. Sam Shepard, sul diario postumo del regista scrittore che invita a mettere «bandiere sui pali per guidare la memoria….». Questa conclusione, ricollegandomi a ciò che dico sull’importanza della struttura, del progetto-libro nella sua produzione, mi sembra oltremodo rilevante per la comprensione di tutto il volume… È così?
Sì. è così. Mi fa piacere che lei lo abbia notato. Per questo infatti ho collocato il brano su Sam Shepard al termine dell’opera. Come scrisse il regista scrittore americano, gli spagnoli nel Cinquecento mettevano bandiere sui pali per orientarsi nel territorio conquistato ai Comanche, i quali invece non avevano bisogno di farlo perché sapevano sempre dov’erano. In fondo quegli spagnoli oggi siamo tutti noi, uomini moderni, che dobbiamo piantare i vessilli sul terreno per collegare i pezzi della nostra vita. Gli antenati (uno dei capitoli è intitolato a loro) potevano farne a meno. Avevano tutto già in testa. Noi no. Dobbiamo picchettare sulla sabbia per lasciare un segno della nostra presenza nel mondo. Sarà pure un’illusione, come pensava Giacomo Leopardi (che ho scrutinato nel capolavoro giovanile dell’Infinito e in quello dell’estrema maturità, Il tramonto della luna). Ma ci consente di vivere.

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