Ida Meneghello
Diario di una spettatrice

Delusione Cavani

Il nuovo film di Liliana Cavani, “L'ordine del tempo“, è noioso e, in ultima analisi, dannoso per la storia di una regista importante. Tutto il contrario del film d'animazione “Manodopera” di Alain Ughetto, l’altra faccia delicata e malinconica del film di Garrone “Io capitano“

Ho visto due film in sala in questi giorni: quello di Liliana Cavani, L’ordine del tempo, che non è deludente, di più, è la conferma che solo i grandi sanno uscire bene di scena e non è il suo caso, e l’imperdibile pellicola di animazione di Alain Ughetto Manodopera. Interdit aux chiens et aux italiens. Comincio dal film della Cavani.

C’è chi ha evocato Il grande freddo di Lawrence Kasdan o addirittura Éric Rohmer per L’ordine del tempo, il film che segna il suo ritorno alla regia dopo vent’anni, ispirato, così dice, dall’omonimo saggio del fisico Carlo Rovelli. Non c’è Kasdan, non c’è Rohmer e non c’è neanche Rovelli, solo vaghi riferimenti all’inesistenza del tempo lineare passato-presente-futuro. Ma anche prendendo per buono l’assioma della fisica quantistica, le quasi due ore del film sono comunque tempo perso: ho visto solo la brutta copia della commedia francese (peraltro godibile) Piccole bugie tra amici di Guillaume Canet e pure di Perfetti sconosciuti (coincidenza, la sceneggiatura è cofirmata proprio da Paolo Costella). Perché una regista protagonista del cinema italiano dal 1966 abbia sentito la necessità di fare questo film è per me un mistero: ho assistito a un racconto improbabile senza la minima empatia e ho fatto il tifo per l’asteroide che minaccia di distruggere l’annoiata compagnia riunita a Sabaudia e che reagisce alla probabile estinzione del genere umano smettendo di lavarsi i denti e ballando Dance me to the end of love. Non scrivo altro, ho perso anche troppo tempo, lineare o no.

Il film di Alain Ughetto è tutta un’altra storia, è un piccolo gioiello in apparenza destinato ai bambini visto che si tratta di una pellicola di animazione a passo uno (la tecnica di ripresa fotogramma per fotogramma con pupazzi), in realtà rappresenta l’altra faccia delicata e malinconica del film di Garrone Io capitano, perché è la storia dei nonni del regista, Luigi e Cesira, e dei loro figli emigrati dal Piemonte in Francia all’inizio del 900, quando i migranti eravamo noi. Ha ragione Paolo Mereghetti a definirlo la più bella sorpresa di questo inizio di stagione: in appena 70 minuti seguiamo, un po’ sorridendo, più spesso col nodo in gola, le vicissitudini di una famiglia di contadini che lascia la sua terra ai piedi del Monviso per cercare oltre il confine una vita migliore, facendo i conti con la guerra in Libia, la Grande Guerra, l’epidemia di spagnola, gli incidenti sul lavoro, i fascisti, il razzismo che vieta l’ingresso ai cani e agli italiani (come lo vieterà ai cani e agli ebrei). E se ogni tanto la mano del regista compare tra le marionette, è per ricordarci che non è finzione, quella è la storia delle sue origini, delle radici in un mondo che non c’è più e che ci fa così vicini e simili a chi oggi attraversa il mare, come noi allora attraversammo le montagne.

Facebooktwitterlinkedin