Giuliano Capecelatro
A proposito di “Guerra“

Céline in guerra

Adelphi pubblica un romanzo di Céline dedicato alla guerra (e scritto sotto le armi) dove lo scrittore si conferma l'anti-Proust. Una vicenda solo abbozzata contemporanea ai primi capitoli di "Viaggio al termine della notte”

«Mi sono beccato la guerra nella testa. Ce l’ho chiusa nella testa». La guerra, anzi la Guerra, Signora famelica dei nostri giorni, immarcescibile mostro goyano, musa in nero di vita e opera di Louis-Ferdinand Destouches, scrittore negletto prima e poi esaltato col nome di Céline, uomo esecrato per le sue abiezioni, su tutte il furente antisemitismo.

Ne sconvolge il corpo, la guerra: fratturato il braccio destro, che resterà in parte menomato; più grave il trauma alla testa: sbattuta contro un albero dallo scoppio di una bomba, sarà squassata da dolori lancinanti e perfidi acufeni per tutta la vita. Riorienta i suoi pensieri e, con la sua inesorabile e cieca virulenza, ne plasma lo stile: aggressivo, esplosivo, dissacrante fino all’eccesso.

Così è Guerra, testo non rifinito (lacune, frasi illeggibili, personaggi che cambiano nome), manoscritto rubato a guerra in corso (la seconda mattanza mondiale) con tanto altro materiale dello scrittore. Recuperato di recente e pubblicato; in Italia lo propone Adelphi (Guerra, pagg. 156, euro 18), nell’ottima traduzione di Ottavio Fatica, che precisa in una nota: “romanzo pieno d’insidie, botole, tagliole, trabocchetti; per il traduttore il rischio è caderci a ogni passo”. D’altronde, con Céline il catalogo è questo. Un’emblematica acquaforte di Otto Dix in copertina, Sentinella morta in trincea, riassume il senso dell’opera.

È ancora Ferdinand (ovvio alter ego dell’autore), già protagonista dell’oggi celebratissimo Voyage, a muovere le fila del racconto. Lì (Viaggio al termine della notte), nelle prime pagine, si imbarcava con l’entusiasmo del neofita, ebbro di gloria vagheggiata con la spensieratezza spumeggiante del ventenne, nel clima di collettiva eccitazione, verso quell’insensato mattatoio che fu la prima guerra mondiale. Salvo ripensarci e far retromarcia dopo il battesimo del fuoco.

Qui il ripensamento è già punto di partenza. «Mi sono beccato la guerra nella testa» (Guerra, pag.26), è l’epigrafe alla stagione guerriera. Ma la guerra ha impresso a fuoco il suo sigillo: «Ce l’ho chiusa nella testa» (ivi). Ecco, allora, che l’antieroe ingaggia un feroce corpo a corpo con la megera omicida; la deride, la sbeffeggia, la insulta. La ridicolizza con la medaglia al merito guadagnata (Céline, per un’azione in cui si offrì volontario, fu effettivamente decorato) da un soldato che nutre ripulsa e massimo disprezzo per tutto il ciarpame bellico: onore, gloria, eroismo, amor patrio. «Vent’anni, uno impara. Ho l’anima più dura. Come un bicipite» (Guerra, pag. 27).

Picchia sodo, Ferdinand, con quel bicipite; persegue solo il suo tornaconto personale, vuole levare le tende, portarsi in climi più salubri. Lo dichiara senza giri di parole, l’unico campo di battaglia che lo attira è l’alcova (cioè il sesso femminile, qui tradotto in aggraziata metafora), evocata con quel suo linguaggio diretto fino alla brutalità più oscena. La guerra, la ferinità elevata a strumento di risoluzione delle controversie, ha cancellato quel tanto di sacro che l’uomo poteva illudersi di rintracciare, e magari venerare, nella sua esistenza.  

Céline fa piazza pulita di tutti gli orpelli che agghindano la commedia umana. Banditi, scherniti amore, amicizia; vilipesa persino la genitorialità: «Erano sì due disgraziati lì ai piedi del letto… Non ho mai visto né sentito niente di più schifoso di mio padre e mia madre» (ivi, pag. 49). (Nella realtà dei fatti Louis-Ferdinand Destouches ebbe rapporti di tutt’altro tenore con i suoi).

È la lingua l’arma con cui Céline si scaglia contro i suoi, i nostri, fantasmi. Un francese che afferra per la collottola e convulsamente rimodella, da cui espunge ogni leziosità, piacevolezza, eleganza grammaticale, artificio da esteta, che affila saccheggiando il vasto repertorio dell’argot (strutturata lingua parallela), della mossa parlata quotidiana, che rigenera deformando senza pietà la sintassi. Ne scaturisce un ritmo incalzante, a volte vertiginoso, sempre ammaliante. Qualcuno ha paragonato la sua scrittura a una partitura jazz.

Sul crinale della lingua Céline si erge come l’anti-Proust per eccellenza. Detestava con tutto il cuore, lui, piccolo borghese, quel rampollo di buona famiglia, ebreo per di più, e non bastasse anche omosessuale, frequentatore assiduo e compiaciuto dei salotti parigini. Tanto è elaborata, meditata, accuratamente, quasi ossessivamente analitica la pagina di Proust, così, piena di fuoco, irruenta, sturm und drang, è la prosa del figlio della negoziante di chincaglierie del Passage Choiseul di Parigi, del corazziere che ha abiurato l’adolescenziale infatuazione per l’esercito.

Li divide, oltre e molto più che l’origine sociale, un divergente, inconciliabile approccio al mondo. Il bergsoniano Proust (molti lo negano, ma è difficile sfuggire alla sensazione che lo scrittore abbia in qualche modo subìto l’influsso del filosofo dell’élan vital) ha ancora incrostazioni di pensiero ottocentesco. I suoi personaggi sono soggetti in senso classico, coscienti di sé stessi. Il barone di Charlus è Charlus, Albertine è Albertine, Robert de Saint-Loup, l’amico idolatrato, è Robert de Saint-Loup. Soggetti che si muovono autonomamente, che agiscono in base al loro libero arbitrio.

La scena céliniana vede aggirarsi un’umanità sballottata dalle onde dell’esistere, che deve aver appreso per vie traverse, per sentito dire, che dio è morto, e ha quindi perso ogni punto di riferimento forte. La Vita è degradata a semplice vicenda biologica, nascita-copula-morte. Attori senza copione che sembrano quasi anticipare i manichini impegnati in una parodia, pura simulazione della vita, di Samuel Beckett.

Ma non è una partita di pallone o un incontro di kick-boxing, con un vinto e un vincitore. Tra l’altro i due non si trovarono mai vis-à-vis. Anatemi di Céline a parte, quasi non ha senso, tanto è ovvio, ribadire che Proust è un grande scrittore. L’indagine al microscopio di quel mondo dorato che pure lo abbagliava e attraeva, di quell’immaginata nobiltà d’animo irrorata dalla nobiltà di sangue, si rivela spietata nella sua oggettività. L’omosessualità di un barone de Charlus diventa la chiave per giungere a considerazioni profonde sul mito ambiguo della virilità, di cui appare campione l’adorato Saint-Loup. L’Olimpo in cui troneggiano i Guermantes alla fine si affloscia, come un fondale di cartapesta.

Anche sulla guerra – Proust visse il primo conflitto mondiale a Parigi sotto le bombe – si schierano su fronti opposti. Per Proust rientra tra gli eventi oggettivi. Si possono considerare giuste le ragioni dei francesi rispetto alle pretese dei tedeschi, o oscillare nel giudizio, se non addirittura sbilanciarsi verso i proclami del kaiser, come farà l’immancabile Charlus, ma resta un evento ineluttabile contro cui non ha senso ribellarsi. C’è stata, c’è, ci sarà; non si può far nulla, se non addolorarsi perché porta anzitempo alla tomba Robert de Saint-Loup. Il suo denigratore, invece, batte il sentiero della ribellione. E Guerra rilancia splendidamente, in un racconto breve e incisivo sul filo per lui consueto del grottesco, l’avversione, il no deciso alla logica delle armi maturato dal giovane Louis-Ferdinand Destouches, che ha consegnato al suo doppio letterario il compito di infilare il messaggio nella bottiglia e affidarlo ai flutti del tempo. C’è solo da sperare che questo seme, con i pochi altri sparsi in giro, dia, nel dilagante clima isterico di bellicismo, i suoi frutti. Quanto a Céline, il materiale recuperato è copioso; la sua voce avrà modo di farsi sentire ancora, e non possiamo che rallegrarcene.

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