Fabrizio Cossalter
Su “A Città del Messico con Bolaño”

Messico o nuvole?

Il libro di Alessandro Raveggi dedicato a Città del Messico e ai suoi presunti orrori è un reportage poco aggiornato: il punto di vista di un accademico italiano dei nostri tempi, disposto a tutto pur di sfoggiare il proprio lessico multiculturale e postcoloniale

È con un qualche sconcerto che mi appresto a recensire il libro di Alessandro Raveggi A Città del Messico con Bolaño. Un racconto per mappe e stazioni (Giulio Perrone, 127 pagine, 15 Euro) caratterizzato a mio avviso – preferisco dirlo subito – da pretenziosità intellettuale e goffaggine stilistica, come tenterò di mostrare.

Anch’io, come l’autore, mi sono trasferito a Città del Messico nei primi mesi del 2009, ma, diversamente da lui, non l’ho mai lasciata per tornare in Italia e continuo a viverci. Va da sé che queste circostanze, puramente private, non mi conferiscono alcun titolo critico ulteriore e che pertanto dovrò argomentare il mio giudizio negativo sull’opera in questione; mi forniscono, semmai, una specola un po’ più perspicua dalla quale osservare la rappresentazione di Città del Messico (il «rinomato Distrito Federal, il DeFectuso, il DiFettoso [sic]») offertaci da Alessandro Raveggi.

Devo confessare, innanzitutto, di essermi sentito piuttosto offeso – in quanto abitante, abitualmente felice e di quando in quando infelice, seppur privilegiato, del «Mostro» e della «Città Impossibile» – da codesta raffigurazione e dal linguaggio giovanilista, pseudo-apocalittico, sentenzioso e deliberatamente splatter utilizzato dall’autore, che non vive nella mia città da almeno un decennio.

Eccone alcuni esempi: «ubiquità perenne ma assieme buco nero esistenziale che si vive a Città del Messico»; «odore che ci si aspetta a cucinare i cani randagi»; «due piccinotte simpatiche intente forse a leggere romanzi un po’ tosti che io avevo assegnato loro al seminario»; il «robottone messianico della Biblioteca Centrale sta lì a controllare come una divinità gli ariosi giardini rasi dell’UNAM», ad «alzare però un po’ lo sguardo da Street View verso la visione di Maps, che è un po’ come lasciare la prospettiva di un Angelo messaggero per raggiungere la Prospettiva-di-Dio [sic]»; «la piramide o Templo Mayor rubizza»; gli «scenari, alcuni da Striscia di Gaza, delle periferie e dei sobborghi più malfamati, la Colonia Doctores, la Colonia Buenos Aires» – le quali, peraltro, si trovano nel cuore geografico della città; «training per l’Apocalisse»; «ti orienti alla possibile caducità futura, non solo alla reale metropoli-mostro, ma anche alla reale estinzione della specie, alla non-città»; «lerciume metafisico e sognante»; «prendevo la linea della metropolitana che mi avrebbe fatto traghettare purgatorialmente in un luogo di dannazione eterna, il cosiddetto Paradero Chapultepec» – a pochi isolati dal mio appartamento upper middle class, ci passo quasi tutti i giorni, suvvia!; «idealmente “sotto” come fosse uno scolo»; «anticamera immonda di varie perversioni»; «sbudellatori di trippe fumanti»; «Davvero un girone infernale per giunta inaspettato alle otto del mattino, dove le voci si fanno ritmiche ripetitive robotiche»; «strafatti di trielina, distesi nel pattume, ma che nel caos del Paradero risultano quasi salvifici, purificati [sic!]»; «traghetto per un ulteriore inferno distantissimo, estenuante»; «spintonato qua e là in quello scenario simile a una zona di guerra afgana» – se avessi saputo che un connazionale stava vivendo in condizioni così miserrime lo avrei persino aiutato…; «e tutti quanti intenti a manducare, manducare, manducare, come senza sosta si fa in Messico» – qualcuno, qui, potrebbe avvertire un certo sentore di razzismo gastronomico; «spazio degradato»; «miasmi immondi del Paradero Chapultepec»; «Anti-materia messicana»; «Contro-natura messicana».

E ancora: «Leggevo però autori postmoderni e americani, oppure la neoavanguardia italiana, e Bolaño, che certo non era algido, arguto o yé-yé come i postmoderni o Sanguineti»; «ironia della sorte: divenni in seguito anche devoto di Octavio Paz, benché mai ne soffrii l’autorità, e il suo essere un gran politicante culturale»; «i latinoamericani hanno quella qualità: di essere molto dinamici, di danzare sempre, di muovere le mani sulla pagina come fa un altro autore per me importante, il raccontista uruguayano Felisberto Hernández [sic]»; «L’essere studenti a Città del Messico è, sì, una condizione di pericolo imminente, una condizione di inferno purgatoriale [sic!]»; «le tristi fosse comuni, che vengono scoperchiate ogni giorno fuori dalla città, nell’Anti-materia, nel Contro-natura messicano. Fosse ahinoi anche di studenti probabilmente trucidati e riversati nelle miriadi di tombe senza nome che piagano il Messico peggio dell’ex Jugoslavia»; «Ho marciato con loro in primavere soleggiate nel Paseo de la Reforma, specchiati nei vetri di banche e palazzi dei lusso [sic]»; «miasmi fognari»; «Il massacro interiore della Narvarte, me lo chiamai: un titolo possibile perché mi toccava nell’intimo»; «Quell’oramai antico e necessario oblio di intere classi che si rifiutano giornalmente di vedere la realtà per come è, oggi è diventato un grave disturbo schizoide del Messico»; «ogni pasto è stata anche una sfida in cui ho rischiato di lasciarci le penne o la testa»; «sorgenti impure della città»; «le introvabili acque naturali pagate a peso d’oro» – in realtà, l’acqua imbottigliata si trova dappertutto e un litro costa meno di mezzo euro…

Qui mi fermo, la seconda metà del libro ve la posso raccontare pure io, con una minima controindicazione: lungi da me il negare la violenza, le tragedie collettive, gli incessanti femminicidi e i problemi endemici che affliggono la società messicana, epperò, nell’accumularsi dei luoghi comuni, il lettore avvertito sentirà terribilmente la mancanza di una qualche dose di intelligente sprezzatura.

Raveggi, invece, spinge smodatamente, da par suo, sul pedale dell’esotismo politicamente corretto, come se fosse una specie di finto Manganelli dedito a dilettare gli inappetenti palati degli ultimi, evanescenti Pasolini di questa nostra belle époque in ottavo piccolo, dalla compianta Michela Murgia a Valerio Chiara (il copyright è di Massimiliano Parente, ça va sans dire), per non parlare di Roberto Saviano, lo specialista di miserie (convinto che qualità di scrittura equivalga a ornamento superfluo e prosa d’arte), e dei loro allegri compari, ricchi di coscienza e poveri di stile.

Apprendiamo così che l’autore ha assaporato il «sapore stranito dell’esilio» fuggendo dalla «brutta Italia del 2009, piena di disoccupati e soubrette oramai sfatte “grazie” a Berlusconi», «senza poter paragonare certo il pinochetismo al berlusconismo dei miei anni messicani, ma…» – evidentemente, l’autentico problema della cosiddetta «fuga dei cervelli» deriva dal fatto che prima o poi ritornano per davvero e non smettono più di pubblicare.

Scopriamo poi che il nostro eroe ha dovuto affrontare, nella «città dell’Apocalisse», la temibile epidemia «dell’influenza AH1N1» («con l’esercito per strada che intimava di rintanarsi nelle case»!) – dài, non scherziamo, furono due settimane alla fin fine sopportabili, nonostante la chiusura dei bar e dei ristoranti, con appena un migliaio di morti. Chissà che cosa avrebbe scritto il nostro del terremoto del 2017, se fosse vissuto qui da noi…

Deo gratias, Roberto Bolaño non appare quasi mai nel libro, se non come fantasmatica reincarnazione che accompagna l’autore nei suoi tragitti danteschi, a bordo degli infernali autobus che gli permettono di raggiungere l’università privata nella quale dissipa la sua favella di fronte a degli «studenti agiatissimi», dal «crine ingellato o la coscia fasciata, inanellati, rampanti», che in fondo disprezza – come se non ci fossero delle famiglie anche umili (ne conosco parecchie) che si sforzano di dotare i loro figli di un’educazione migliore di quella pubblica.

Al di là delle risorse alfine dozzinali di cui si serve Raveggi (elenca, per esempio, gli studenti desaparecidos di ieri e di oggi, esibendo un’empatia francamente retorica dalla «noia borghese e sicura del mio appartamento di Firenze»), quel che disturba di questo libro è anzitutto la prospettiva fallace e un po’ truffaldina, che altro non è se non il punto di vista inevitabilmente ancipite di un accademico italiano dei nostri tempi, disposto a tutto pur di sfoggiare il proprio lessico multiculturale e postcoloniale (o neocoloniale?) e destinato, malgré lui, a incespicare in un fascio di contraddizioni, formali non meno che sostanziali, di cui malauguratamente sembra non essersi ancora reso conto.

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