Arturo Belluardo
Viaggio in Namibia/5

Swakopmund e Wlotzkasbaken

I segni della colonizzazione vecchia e nuova, in Namibia, sono ancora fortissimi. Provare ad andare a Swakopmund o a Wlotzkasbaken, troverete il presente di un dominio culturale tedesco ancora forte, dopo lo sterminio degli herero a inizio Novecento

Prendendo il volo da Francoforte a Windhoek, capitale della Namibia, mi sono chiesto come sarebbe stato viaggiare in un aereo dove noi bianchi saremmo stati, per una volta, la minoranza: domanda ingenua, ignorante. Gli africani neri erano una manciata, giusto una squadra di adolescenti reduci da un campionato giovanile in Germania e qualche altro: il resto tutti bianchi, la maggior parte tedeschi, immancabili gli italiani.

Nel gioco ottocentesco della spartizione dell’Africa con squadra e righello, con confini tracciati nel nulla e spesso senza senso alcuno, il territorio di quella che è oggi la Namibia era diventato colonia tedesca alla fine del diciannovesimo secolo, con il nome da rutilanti timpani wagneriani di Deutsch-Südwestafrika (Africa Tedesca del Sud-Ovest), e lo era rimasto fino alla Prima Guerra Mondiale, quando il Sudafrica, allora colonia britannica, se n’era impossessato.

La Namibia è diventata uno stato indipendente nel 1990, dopo una tormentata e affascinante storia di rivolte marxiste, ma il suo legame con i primi colonizzatori è rimasto fortissimo, al punto da condizionarne i nomi dei luoghi, l’architettura, la lingua (nonostante la lingua ufficiale sia l’inglese, in alcune zone del Paese il tedesco è largamente parlato), le abitudini alimentari, i voli diretti dall’Europa, il turismo.

Nebbia a Swakopmund

L’epitome della germanicità namibiana è senza dubbio alcuno Swakopmund, la seconda città della nazione africana, collocata sulla Skeleton Coast orientale, tra dune color oro e banchi di nebbia gelida, e fondata dai tedeschi a fine Ottocento come punto di sbocco e approdo sul mare.

Posto curiosissimo, Swakopmund, già dal nome del fiume alla cui foce sorge la città: Swakop significherebbe in herero, luogo in cui si accumulano gli escrementi di elefante. Curiosa per la sua collocazione, un agglomerato di perpendicolari e parallele in mezzo a dune dall’altezza vertiginosa. Curiosa per come cambi dal mattino alla sera, da ridente cittadina balneare, le acque gelide dell’Oceano Atlantico sono meta prediletta dei locali e dei turisti afrikaans e tedeschi, a porto delle nebbie, che nulla ha da invidiare ai docks londinesi: calata la sera, i negozi chiudono (sempre di origine tedesca sono, alle 18 massimo cade la penna!), la città sparisce, inghiotte i suoi abitanti, i cormorani si lanciano in volo in frecce distese, e dalle brume spesse, a malapena illuminate dai rossastri lampioni solari, non vedi, senti e intuisci: senti stridere pneumatici sulle strade di sale e ghiaia, senti bramiti di dromedari, senti voci gutturali, schiocchi di palato del click language, senti passi lontani e vicini e rabbrividisci, come se dalla nebbia potesse improvvisamente emergere un nerissimo Jack the Ripper.

Ma la caratteristica predominante di Swakopmund è senza dubbio l’architettura: oltre ad aver mantenuto gli edifici costruiti in stile foresta nera dai primi coloni, la prigione, la Wormannhaus, il gusto dell’invasore ha dominato anche le costruzioni successive, tutte con leziosità tirolesi e tetti spioventi, pure nei comprensori più poveri, anche se sulla Skeleton Coast non piove mai.

Swakopmund

Anche l’albergo dove siamo ospiti, storico della città, è in stile coloniale e ne conserva la rigidità teutonica: bisogna osservare un abbigliamento formale se si vuole accedere alle splendide boiserie delle sale comuni, a colazione vengono serviti carne fredda e bratwurst. Quando ci rivolgiamo al concierge nero per un piccolo problema, arriviamo al termine di un cazziatone da parte della direttrice, una donnona tedesca: si conclude con un “Non ti azzardare a parlarmi!” che sfuma in un forzato sorriso sudato quando lei si accorge della nostra presenza. E la sua ferrea presenza dominerà il nostro breve soggiorno nell’hotel. E questo predominio dal sapore coloniale, bianchi namibiani, afrikaans o tedeschi che siano, sempre un gradone più in alto di herero, himba o bushmen, lo vedo ripercuotersi in buona parte delle lussuose strutture che ci ospiteranno, lodge che in Europa mai ci potremmo permettere, ma che qui, grazie alla forza dell’euro sono alla nostra portata. Lodge e alberghi spesso isolati o, se non isolati, enclave dalla pelle pallida.

E mi chiedo, con Alberto Moravia in parole scritte circa cinquant’anni fa (A che tribù appartieni?): “Perché tanta grandiosità, tanto lusso? Mi dico che, al contrario del missionario che partecipa alla vita dell’africano e soffre con lui; al contrario del superstite riccone da safari che vuole ammazzare le sue belve e basta; il turista di massa è psicologicamente fragile: non ha per difendersi dal senso di colpa né la carità del primo né il cinismo del secondo. D’altra parte, perché il senso di colpa? Chiaro ancora una volta: la massa è sensibilizzata quanto al potere al quale aspira o che già detiene. Per questo non ama divertirsi nel mezzo delle sofferenze e delle privazioni di cui, appunto perché potente, si sentirebbe in qualche modo responsabile.”

È questa la contraddizione ambigua del turista? Che vuol vedere solo quanto è a lui tollerabile e con la sua stessa presenza perverte non solo i rapporti, ma anche lo stile di vita nativo? Questo sapore di indeterminazione heisenbergiana attraversa la visita che facciamo a un villaggio himba.

Gli himba sono una popolazione che vive di pastorizia in villaggi circolari costruiti attorno al recinto del bestiame con capanne fatte di argilla, escrementi di vacca e fronde di mopane. Non hanno acqua corrente né elettricità, si cospargono il corpo di ocra per tenerlo pulito e si disinfettano esponendosi ai fumi della mirra. Dormono per terra appoggiando la testa su un rialzo d’osso e l’appartenenza alla tribù viene celebrata con l’asportazione dei quattro incisivi inferiori con pietra e scalpello.

Gli himba praticano la poligamia: ogni capanna però appartiene a una donna soltanto e il marito salta da una capanna all’altra, più bestie possiede, più mogli può comprare, più capanne di conseguenza avrà. Le donne hanno i capelli raccolti in trecce unte e giallastre e stanno a seno nudo.

Donna himba

Il giorno che visitiamo il loro villaggio, un ricovero per donne e bambini in difficoltà, spira il vento gelido dell’est, sferza volti e carni, le donne himba sono raggrinzite in un gruppetto, a stento riscaldate da luride coperte di pile con il logo di Batman. Il capotribù, che ci racconta il loro modo di vivere, le costringe a scoprirsi, a offrire ai nostri obiettivi i lunghi seni neri ghiacciati. Le donne rabbrividiscono il tempo delle foto, poi si radunano attorno al fuoco sacro a contrattare allo stremo la vendita della povera chincaglieria fatta di perline di legno e di ossi di vacca incisi. La trattativa pare obbligatoria, anche se ci si strema per pochi centesimi di euro, mentre i bambini nudi e circoncisi scorrazzano tra polvere e merde bovine, incuranti del freddo.

E così anche l’incontro con le donne herero e con il loro mercatino solidale è vergato da estenuanti trattative per l’acquisto di borse e maschere, statuine di legno e braccialetti. Le donne herero, a differenza delle himba, indossano abiti sontuosi, gonne variopinte di foggia ottocentesca e copricapi di fazzoletti intrecciati in guisa di corna.

“È una rielaborazione delle divise da governanti, da cameriere che facevano indossare loro i coloni tedeschi quando le prendevano a servizio” ci racconta Irene, la nostra guida italiana “Più che altro le obbligavano ad andare a servizio, dopo aver sterminato i loro mariti”. E ci racconta del genocidio degli herero da parte dei tedeschi, il primo genocidio del ventesimo secolo. Gli herero avevano osato ribellarsi al dominio tedesco, i famigerati Mau-Mau: furono sterminati, ridotti alla fame, uccise le mandrie, avvelenati i pozzi.

«Il popolo herero deve lasciare il paese. Se non lo fa, lo costringerò a farlo usando il grande fucile. Qualunque herero maschio, armato o inerme, con o senza bestiame, trovato entro la frontiera tedesca sarà fucilato. Non accoglierò più né donne né bambini, li ricaccerò alla loro gente o farò sparare loro addosso. Queste sono le mie parole per il popolo herero.»

Questo il proclama del generale von Trotha, al comando delle truppe tedesche in Namibia ai primi del Novecento. I pochi herero superstiti furono rinchiusi in Konzentrationslager e impiegati come schiavi o usati come cavie per esperimenti medici.

Donne herero

Nel 2004, a onor di verità storica, la Germania ha riconosciuto e indennizzato i suoi crimini: forse per questo la religione è rimasta quella luterana, forse per questo i tedeschi comprano case di villeggiatura sulla Skeleton Coast, anche in posti assurdi come Wlotzkasbaken, dove vivono in baracche in lamiera senza acqua corrente a due passi però da un mare pescosissimo e pieno di relitti spettacolari.

Forse.

E forse i nuovi colonizzatori sono i cinesi, che si stanno sempre più appropriando dell’Africa e delle sue risorse, rame e uranio in Namibia, e hanno installato, tra Swakopmund e Walvisbay, una base segreta ricolma di padelloni satellitari, si dice che la usino per spiarci.

O forse sono le compagnie diamantifere, come la De Beer, che governano Oranjemund, la cittadina al confine con il Sudafrica, dove il fiume Oranje scarica chili di diamanti fluviali: a Oranjemund non si può entrare né uscire, è una città chiusa, riservata a chi pesca le pietre preziose, che da lì prendono il volo per Anversa.

O forse sono le star hollywoodiane, come Angelina Jolie, che ha fatto nascere il suo primo discendente in Namibia, requisendo hotel e villaggi per ospitare il suo seguito di medici, infermieri, massaggiatori, ostetriche, fisioterapisti, mentre Brad Pitt sciava sulle dune. Certo, la fondazione della Jolie ricambia finanziando i santuari per la protezione degli animali selvaggi gli stessi che vengono comprati e importati per rimpinzare le riserve private ad usum turistorum.

Fatto è che la Namibia, e l’Africa in genere, rimane terra incognita e inconoscibile per l’occidentale tutto preso dal suo fascino per l’ignoto.

“Pour l’enfant amoureux de cartes et d’estampes: questo primo verso di Le Voyage di Baudelaire esprime bene il fascino che esercitano le carte geografiche e, nelle carte, certe indicazioni o, anche, l’assenza di indicazioni. Chissà cosa sognavano per esempio i ragazzi del Medioevo di fronte alle carte in cui grandi spazi bianchi portavano la scritta: Hic sunt leones!”

E sempre Moravia, e sempre la terra desertica, arida, uguale a sé stessa nel tempo e nei luoghi, sorridente e depredata, resa schiava e costretta in confini fittizi, laddove l’africano si riconosce per tribù e linguaggi, ed è, prima che emigrante, nomade e vero viaggiatore.

Villaggio himba

Cammina per strade polverose, non conosce il senso del tempo o forse lo conosce appieno, essere atavico e immortale, la cui gentilezza è scambiata per infantilismo e remissività.

Non so se siano i sorrisi africani, non so se siano le savane e le dune, non so se siano i grandi animali selvaggi a far nascere quel senso di malinconia appiccicosa che è chiamato Mal d’Africa.

Forse è il senso di rinascita, di riconciliazione con l’anima profonda del mondo che qui sicuramente alloggia, forse è la rassegnazione a quello che mai saremo, a quello che cerchiamo inesorabilmente di deturpare, esportando i nostri modelli di sviluppo capitalistico beceri e spietati.

Forse è un tramonto rosso sul deserto, su una pozza lontana a cui si abbeverano giraffe e struzzi, orici e rinoceronti, con i rami delle acacie che si stagliano neri nell’aria tersa e secca, mentre il canto d’amore metallico dei gechi si riverbera sulle pietre rosse e verdi.

https://youtu.be/ah7ZSVldv0Q

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