Ida Meneghello
Il cinema de laMeneghello

La bomba di Nolan

Oppenheimer, il nuovo film di Christopher Nolan, divide pubblico e critica: tre ore (forse un po' troppe) per parlare di un uomo, non della “sua" bomba

Inevitabile tornare in sala – dopo un mese di astinenza interrotta solo da Barbie, vista con tutta l’estraneità di chi non ha mai giocato con le bambole – con il film fenomeno del momento: l’attesissimo Oppenheimer di Christopher Nolan, che da cinque giorni sta dividendo critici e spettatori tra scettici perplessi e chi grida al capolavoro (un po’ la replica de Il sol dell’avvenire, ma con ben altri incassi). Prima constatazione: comunque la si pensi, vedere un film in una sala stipata fino alla prima fila è un’emozione che avevo dimenticato, quindi un applauso lo merita a prescindere. Mi è piaciuto? Sì, mi è piaciuto, dico di più, certe scene mi hanno provocato brividi e pensieri foschi che mi sono rimasti incollati e mi hanno impedito il sonno.

L’ho guardato senza aspettative, al contrario, ero prevenuta negativamente avendo letto rilievi circostanziati e apparentemente condivisibili di critici con cui sono quasi sempre d’accordo. Tranne poi scoprire, vedendo il film, che si trattava di obiezioni magari legittime, ma secondo me totalmente fuori tema rispetto ai contenuti della pellicola. Nolan non banalizza la storia drammatica della creazione della bomba atomica, né è reticente sul piano storico e politico. Semplicemente perché non è questo il soggetto di Oppenheimer. Il film racconta meticolosamente (troppo meticolosamente, dura 3 ore) la vicenda umana del “padre” dell’atomica, dagli studi ad Harvard e Cambridge passando per Göttingen e Zurigo fino a Berkeley, inseguendolo nell’intreccio complesso delle molte relazioni che gli permetteranno di comporre e guidare il più grande trust di scienziati della storia coinvolti nel progetto Manhattan. E racconta ciò che gli successe nel dopo guerra, la sua opposizione alla bomba H e le inchieste che si abbatterono su di lui nell’epoca di McCarthy, fino alla riabilitazione finale.

La lunghezza penalizza la pellicola, come la colonna sonora di Ludwig Göransson così tuoneggiante da coprire a tratti i dialoghi (ma nella scena bellissima del test atomico a Los Alamos c’è un silenzio assoluto che dà i brividi). Non la penalizza invece la narrazione non lineare, quel montaggio che è poi la cifra stilistica di Nolan: ero pronta a non capirci un accidente (come mi era successo con altri suoi film) e invece stavolta mi sono affidata ai suoi salti spaziotemporali senza problemi, tra colore e bianco e nero. Forse per l’indubbia bravura del cast, dal protagonista Cillian Murphy a Matt Damon e Emily Blunt fino ai camei di Kenneth Branagh e Gary Oldman-Truman. O forse per ciò che questo film ci ricorda ed è purtroppo attualissimo. ”Sono diventato Morte, il distruttore di mondi” dice Julius Robert Hoppenheimer citando la Bhagavadgītā. E in una scena Enrico Fermi evoca il rischio che la bomba inneschi una reazione a catena dando fuoco all’atmosfera terrestre, che sarebbe la fine del mondo. Ecco perché sto scrivendo adesso questa recensione e sono le 3 di mattina.

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