Arturo Belluardo
Viaggio in Namibia/3

Le iene e le ruote

Il nostro viaggio prosegue nel cuore del deserto, tra stazioni di servizio improbabili e resti di animali. Come diceva Moravia, il destino degli africani è quello di camminare, camminare sempre. Specialmente dove non ci sono strade se non nell'immaginazione

Lazarus, il nostro driver, appoggia forte le dita al parabrezza del Land Cruiser ogni volta che incrociamo un altro truck. Chiedo a Irene, la guida italiana, avana dal cappello alle scarpe, il perché di questo gesto scaramantico, se sia una forma di saluto tra i rarefatti autisti in queste strade dritte, monotone, polverose.

Il motivo, mi spiega la giovane viareggina (guai a dire che è di Lucca), è molto più pratico e mi indica gli asciugamani e le vecchie guide infilate tra la base del parabrezza e il cruscotto: quello che avevo scambiato per accumulo di ciarpame boscimano, serve in realtà ad ammortizzare le vibrazioni. La maggior parte delle strade in Namibia non è asfaltata, sono ampi trazzeroni sterrati con solchi tracciati dagli pneumatici dei trucks, e quando si incontra un veicolo che marcia in senso opposto, i sassi schizzano a colpire e a ferire i vetri della macchina. È una sorte inevitabile, anche il nostro lunotto anteriore verrà inevitabilmente scheggiato e la cicatrice, nonostante i tentativi di Lazarus di arginarla, si estenderà lungo il cristallo come un grafico del PIL durante il COVID.

Un’altra iattura ricorrente sono le forature: anche se si viaggia con le gomme parzialmente sgonfie per assorbire spuntoni e pietre, bucare è inevitabile, ci capiterà almeno due volte (abbiamo due ruote di scorta sul retro del Cruiser). Ma la solidarietà è uno dei punti di forza dei namibiani: se qualcuno ha un problema in queste lande desertiche, fermarsi è un atto dovuto, soccorrere con un sorriso e con uno schiocco della lingua sul palato, il click, è la norma, e poi sembra che tutti i drivers della Namibia conoscano Lazarus. Lui ci mostra un certificato con bulla e sigillo di ceralacca che ha appena ricevuto. “Con questo” ci sorride orgoglioso “posso fare da autista pure al Presidente della Repubblica”.

È proprio la necessità di avere officine e punti di rifornimento nel nulla che ha fatto sorgere in pieno deserto del Khomas, tra bianchi termitai simili a falli giganteschi, cespugli di mirra inebriante e teneri alberi di mopane, nel nulla all’incrocio tra due sterri bianchissimi, il curioso agglomerato battezzato Solitaire.

Solitaire è nata come stazione di rifornimento e di riparazione di pneumatici lungo il tragitto che va dalle dune di Sossusvlei alla Skeleton Coast e a Walvis Bay, ma deve la sua fama allo scozzese Percival Cross. Giunto in Namibia negli anni’90, Cross si ribattezza Moose McGregor, in onore dell’attore protagonista di Trainspotting o per sfuggire a un passato misterioso (esistono sicuramente altre versioni della sua storia, pare che cambiasse a seconda del numero di birre tracannate con gli avventori) e, baschetto di tartan e barbone rossiccio, decide di aprire la sua Bakery nel deserto namibiano e di offrire dolci e pasticci di carne: il suo punto di forza è l’apple pie, alta quanto una mano di Mike Tyson, guarnita dall’inevitabile cream, e cucinata secondo un’antica ricetta tedesca di famiglia. La tradizione è rimasta, nonostante Moose sia morto di diabete una decina d’anni fa e sia sepolto nella terra arida di fronte alla Bakery, e la torta è cotta e confezionata a vista da donne herero in cuffietta e guanti di lattice.

A me però, l’espresso di McGregor fa un effetto devastante e devo arrancare in bagno tra relitti di variopinte auto abbandonate e anomali cactus. I bagni in Namibia sono solitamente puliti anche se spartani, costruiti con lamiere e materiali di risulta, taniche e container. Quello di Solitaire profuma di disinfettante, ma non c’è carta igienica. Rassegnato, mi accomodo ed ecco piovere dal cielo un rotolo ai miei piedi: l’inserviente me l’ha lanciato al di sopra della porta di legno e fil di ferro. La celebrata solidarietà namibiana.

Riparata la ruota, fatto rifornimento di benzina e di inevitabile biltong, la carne essiccata di selvaggina (game in inglese, nome orribile per designare gli animali selvaggi destinati a essere uccisi per gioco) che tutti qui masticano in continuazione, ripartiamo per i sassi e gli sterri, lasciandoci dietro ciuffi di autostoppisti sorridenti, donne che recano in equilibrio sulla testa volumi improbabili di merce: in Namibia non esistono mezzi di trasporto pubblici, ci si sposta con i passaggi, con piccoli contributi per la benzina, ma soprattutto ci si sposta a piedi. “Il destino degli africani” scrive Moravia nel suo A quale tribù appartieni? “è di camminare sempre”.

“Gli africani camminano. Ho viaggiato in Africa nera per migliaia di chilometri e dappertutto, così nei territori come in quelli coltivati, ho veduto singoli individui o coppie di un uomo e di una donna oppure piccole famiglie, oppure ancora gruppi di dieci, venti persone di ambo i sessi e di tutte le età che camminavano in solitudini spaventose, per le sterminate lande pullulanti di alberi tutti eguali della savana oppure per i sentieri che, simili a gallerie, sforacchiano la compatta massa tenebrosa della foresta pluviale.

Dove vanno questi africani migranti? Per lo più (…) vanno e vengono dai mercati, vanno ai pascoli e ai campi oppure ne vengono; infine, possono anche muoversi per motivi familiari o sociali o magici.”

Non ha nulla di magico l’apparizione di stradini stremati sotto il sole ghepardo, sopra il suolo cocente: alle due del pomeriggio, stanno asfaltando una curva in mezzo al nulla e ci protendono bottiglie vuote: gli regaliamo bottiglie d’acqua, l’autista Lazarus lascia loro la sua apple pie masticata a metà.

Le strade sono ferite bianche nella savana o vene sanguigne di sabbia rossa del Kalahari, al tramonto si colorano di una luce impressionista, sembrano dipinte da Seurat o da Pissarro.

Di strade asfaltate ce n’è forse una sola, quella che dalla capitale Windhoek va a Swakopmund, surreale cittadina tedesca dai tetti spioventi (in Namibia non piove quasi mai) e prosegue lungo la costa in una curiosa mescola di ghiaia e sale, che con l’umidità dell’Atlantico si fonde in impasti rischiosissimi. Una linea lunga e diritta, dove il pericolo vero sono la monotonia, i crampi, la velocità e l’alcolismo; gli incidenti sono così numerosi che tra Swakopmund e Walvis Bay si porta ogni anno in processione una croce voluminosa, in ricordo e intercessione per le anime delle vittime della strada. Mentre siamo in viaggio, anche il nipote undicenne di Lazarus sarà vittima di uno spaventoso incidente dovuto a disattenzione.

Quando ci fermiamo a un passo nei pressi di Gibeon, nel deserto del Namib-Naukluft, Lazarus si mette a correre per sgranchirsi le gambe, fa un chilometro in pochi minuti, passo elegante da cheetah del bush. Mentre fotografiamo il panorama e Irene ci illustra profumi e virtù della mirra, Lazarus ritorna e ci mostra i resti di una zebra e di una giraffa mummificati dall’arido ai lati della strada. “Li hanno portati le iene” sostiene.

Si deve trattare di iene prezzolate dalla pro-loco, visto che quella del passo è una sosta standard per i turisti; Irene mi confesserà poi che sono mesi che quei resti di quegli animali sono piazzati là, così come la coscia di una zebra sbranata da un leopardo e penzolante da un’acacia.

Ma gli animali appaiono, eccome, ai lati delle strade, facoceri in fila indiana, kudu dalle orecchie enormi, avvoltoi indifferenti, orici dal muso cubista con corna lunghe e sottili, springbok zampillanti tra i cespugli, squittii di manguste in calore e, per tornare al mio amato Moravia:

“Lontanissimo, talvolta, in quelle solitudini remote, si scorgono miriadi di punti neri che si spostano con rapidità tra il pullulare delle acacie e dei cespugli: sono branchi di zebre o di gazzelle che fuggono chissà dove, spaventati da chissà che cosa; ad un tratto, ci si sente osservati e si scopre che, infatti, al di sopra degli ombrelli delle acacie, si levano, immobili, in cima ai colli enormi, le piccole teste occhiute di alcune giraffe. Questi animali timidi e curiosi stanno qua e là tra gli alberi e più alti degli alberi; poi ad un gesto o ad una voce fuggono via, attraversando l’uno dopo l’altro la strada coi salti lenti, goffi e pesanti delle gambe altissime e dei corpi massicci.” Ma a giraffe e gnu, a zebre e springbok, a rinoceronti ed elefanti, e soprattutto ai leoni dedicherò la prossima e ultima puntata di questo lungo viaggio.

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