Filippo La Porta
Su “Cronache da Dinterbild”

Viaggio a Dinterbild

Nella narrativa di Peppe Millanta l'immaginazione rieduca la realtà delle cose e le parole tornano ad essere uno strumento per giocare e per capire il mondo. Ma vi si racconta un universo pur sempre in attrito con la realtà delle cose concrete

A Peppe Millanta, ex musicista di strada, avvocato per un giorno, direttore di festival e scuole di scrittura, sceneggiatore, e soprattutto scrittore, va anzitutto riconosciuto un merito. Ha creato, nel suo dittico narrativo, e cioè Vinpeel degli orizzonti Cronache da Dinterbild (Neoedizioni) un luogo immaginario, un’isola che non c’è, e l’ha popolato di personaggi eccentrici, e al tempo stesso familiari, e di storie bizzarre ma psicologicamente verosimili (un classico diceva che in letteratura puoi fare tutto ma non rinunciare al realismo psicologico). Nella sua Dinterbild si ritrovano idealmente Alice, il Piccolo Principe, Marcovaldo e gli Antenati calviniani, Garcia Marquez, Verne, Perec e Disney, la poesia visiva d’avanguardia e la letteratura rosa, Tolkien e i disegni pastello e psichedelici di Edelmann per “Yellow submarine”…

Merito non da poco in una letteratura anemica come la nostra, ridotta ad una estenuata autofiction e alla moda pervasiva del reportage (il quale dovrebbe essere il punto di incontro tra giornalismo e letteratura, ma spesso ha i difetti di entrambi: pedanteria cronachistica e lingua parassitaria, grondante metafore): con autofiction e reportage non si inventa nulla perché non si sa inventare più nulla. L’unico rischio che Millanta corre – ma in letteratura occorre pur rischiare! – è quello del poeticismo, della ricerca cioè di tutto ciò che è programmaticamente, inesorabilmente poetico: gli “occhi annegati di pioggia e lacrime”, il sorriso femminile che “porta il ritmo al mondo intero” e le storie “intrappolate in una goccia di sogno ascoltata nel cuore di una donna”, sono tutte espressioni in bilico, un passo più in là e si finisce nel Kitsch sentimentale. Millanta riesce ad evitarlo ma sa che quello è il rischio.

Intendiamoci: in questo caso il critico, cioè io, potrebbe essere considerato un intruso, una persona arida, invadente, incapace di provare emozioni primigenie, e che si intromette abusivamente nella corrente calda instaurata tra l’autore e i suoi lettori. Ma proprio perché ho apprezzato il talento visivo dell’autore, il suo estro immaginativo, la sua verve affabulatoria, mi permetto questa considerazione più critica, che poi va in una unica direzione: il mio suggerimento a Millanta è solo di “raffreddare” un poco questa esuberante colata narrativa, immettervi una nota ironico-riflessiva, trattare il racconto stesso come un materiale di lavoro, conservare l’incanto però, calvinianamente, con un filo di scetticismo. Simone Weil, accennando all’arbitrio dell’immaginazione, dice che i disegni dei bambini dove tutto è inventato sono noiosi: manca l’attrito con le cose. Le pagine migliori di Millanta sono proprio quelle in cui senti l’attrito con la esperienza umana, sempre impura e contraddittoria.

Ma torniamo sui due libri e sui loro innumerevoli pregi, che provo qui ad elencare alla rinfusa.

Una qualità originale dell’invenzione: Vinpeel e l’amico immaginario Doan osservano le nuvole e quando una nuvola somiglia a un oggetto (drago, pentola, fiammifero…), tolgono quella parola dal vocabolario. Nel secondo romanzo ascoltano le storie di cui le conchiglie sono portatrici.

Una componente comica, pur dentro il fiabesco: per avere udienza dal padre confessore Earl servono almeno cinque peccati; Krisheb, lo “scemo del villaggio”, che aspetta che il mare gli restituisca la gamba di legno; gli abitanti di Dinterbild che quando devono nominare la strada in cui abitano decidono di mettere il proprio nome; gli italiani che dovendo scegliere per primi la parte dell’elefante da mangiare optano per la durissima e muscolosa proboscide; le zuppe Biton che non sai di cosa sono fatte, anche se alla fine ne viene svelata la ricetta

L’invenzione stessa della città di Dinterbild, misteriosa Atlantide dell’oblio dove nessuno sogna perché non c’è il passato, dove non si concepisce un altrove e se si concepisce svanisce come un sogno, dove se riesci ad allontanartene in barca ti ricordi del tuo passato: quasi una delle “città invisibili” di Marco Polo.

E poi la invenzione dei Palloni Volanti per portare via le ottanta anime del paese oltre il mare: restano solo in cinque, i protagonisti. Fino a quando?

Una grazia negli incontri amorosi, come il primo incontro tra il protagonista e Mune: “inciampò in quegli occhi azzurri che lo fissavano per la prima volta”

Il dominio sulla lingua, la esattezza evocativa delle descrizioni: “quella strada che nessuno sapeva dove portasse né da dove arrivasse. E poi ancora i piedi della collina, le siepi con il loro odore di solitudine, e quei sentieri impastati di polvere e passi dimenticati…”

Una passione per le parole, le definizioni, i lemmi del vocabolario: passione conoscitiva e ludica. In alcuni momenti sono le parole a sospingere la vicenda narrata.

La fantasia sfrenata con cui (specie nel secondo romanzo) viene graficamente straniata e animata la pagina: riproduzione di cartelli, poesie verticali, spartiti, pagine interamente bianche.

Concludo su un punto: la prosodia narrativa di Millanta ha una “musica” subito riconoscibile, che rivela in lui – ex menestrello! – un orecchio naturale. Una musica nomade e ventosa, nel jazz potrebbe essere l’equivalente del genere tzigano detto manouche. Gli basterebbe forse salire, anche lui, su un Pallone Volante, e osservare dall’alto i suoi mondi immaginari con la stessa ironia con cui Musil, pur rappresentando l’amore mistico tra fratello e sorella, notava come oggi anche di un cavallo da corsa si dice che è “geniale”. E si interrogava su come trasmettere quella esperienza mistica in una prosa non stucchevole. Perfino la lingua dei pensieri più alti, dei sentimenti più intimi si è corrotta. Mi piacerebbe che una consapevolezza di questa “corruzione” si conservasse anche dentro la nostra sacrosanta, meritoria oltranza immaginativa.


La fotografia accanto al titolo è di Deborah Raimo.

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