Daniela Matronola
A proposito de "L'uomo della posta"

Storia di un impiegato

Il nuovo romanzo di Nando Vitali perlustra i normalissimi orrori delle (nostre) vite medie. Dove la realtà diventa un nemico da combattere e gli "altri" sono solo le pedine mosse da questo nemico. Anche per un semplice impiegato della posta

Recentemente per due sole sere in uno spazio all’aperto si sono tenute le due sole repliche di uno spettacolo teatrale piuttosto accattivante: Fool truth (la verità del matto che però suona anche come la piena verità), messo in scena da una compagnia instabile e portentosa, in realtà saggio finale di un corso di teatro durato cinque mesi (solo di lunedì), e scritto e curato dalle ideatrici e istruttrici, Carolina Germini e Marina Benetti. La situazione: una psico-terapia di gruppo con i pazienti seduti in cerchio attorno alla terapista e solertemente interrotti da un pulitore ostinato, una specie di bidello ingovernabile, classico intruso autorizzato dall’istituzione, elemento di disturbo in bilico tra incursore della realtà e psicopatico inarginabile – su tutto e tutti, dentro e fuori dalla situazione scenica, le proteste stridule della terapeuta intervallate da momenti quasi tantrici di esercizi di respirazione e concentrazione.

Una situazione, questa (il cerchio, la pronuncia del proprio nome e cognome ad ogni seduta e ad ogni confessione personale, il dilagare osceno e immedicabile delle piccole e grandi sventure di ogni convitato) che ricorre anche nel più recente romanzo pubblicato da Nando Vitali con Castelvecchi, L’uomo della posta (pagine 254, 22€), il cui protagonista, Lorenzo Della Starza, racconta in prima persona il proprio universo fuori e dentro le sedute di terapia, fuori e dentro il suo ufficio e la cerchia dei suoi colleghi e di tutti gli altri astanti nell’ufficio (tra cui il rivoltante direttore) nella cornice, classica per questo autore, di Bagnoli, teatro per antonomasia di tutti i suoi romanzi.

Si tratta in effetti di sedute del CAA, Centro Alcolisti Anonimi, dislocato a Fuorigrotta in un parco, cioè in un condominio signorile in cui le palazzine sono coordinate per così dire da vialetti aiuole e spazi verdi. La scena in effetti si muove tra Napoli città e Bagnoli, la sua area industriale che, prima dell’Italsider, era in realtà un’oasi, diremmo oggi, ambientalistica.

Nando Vitali è autore autenticamente bagnolese, come lo sono i fratelli Bennato, giusto per citare due altri artisti di Bagnoli, profondamente segnati non solo dal salto della propria patria dello spirito da incanto marino a zona industriale ad alto tasso di disastro ambientale e di degrado urbano, ma pure segnati dalla presenza della base Nato, dal contatto con gli americani con cui, ci racconta il protagonista del romanzo di Nando Vitali, non ci fu mai vera commistione, anche se lingua musica e cultura in senso ampio di questi ospiti molto indipendenti si sono mischiate a prescindere e si sono integrate nella musica nella cultura e nella lingua dei bagnolesi, e anche dei napoletani.

Da un lato, nel romanzo di Nando Vitali, troviamo la situazione del cerchio negli incontri al CAA, e proprio lì Lorenzo, l’uomo della posta del titolo, incontra Maria, donna misteriosa, gravata da un lutto terribile, ed è sinceramente proteso verso di lei; oltre a lei, Lorenzo guarda con attrazione anche alla terapeuta, Bianca, che, straordinario dettaglio sintetico, a seduta conclusa, si rimette il giubbotto di pelle e salta sulla moto, dietro al suo uomo, buttandosi tutto dietro le spalle; e poi sono interessanti alcuni dei pazienti inclusi nel cerchio terapeutico: su tutti Alfredo, certamente malato in modo grave ma soprattutto “uomo schifoso” e livoroso.

Dunque, dall’altro lato, è esemplare la casistica umana, la fenomenologia sociopatologica, che, nel romanzo, attraverso la voce impietosa e via via sempre più impetuosa del suo protagonista, Vitali espone clinicamente al nostro sguardo di lettori smaliziati eppure colpiti da tanta onesta verità.

Chi sono gli umani che popolano questo libro e il mondo?

Sono figure di media statura morale, sono i numerosissimi membri della numerosa genia dei medi cittadini della Terra, sono una classe media confusa quanto a visione del mondo e robusta quanto a occupazione del globo, dunque un po’ tutti noi, se anche noi smettiamo di sorvegliarci e ci lasciamo andare a un degrado appena sotto il filo della sufficiente decenza ma già un passo più sotto, nel mare magnum del degrado e della innegabile schifosità.

Per tutto il romanzo, Vitali non tace sul fatto che esiste tutto un mondo, visibile a tratti, affiorante ogni tanto ma, si capisce, persistente e per così dire immanente, costituito da ratti e da insetti. Ecco, gli insetti soprattutto sono i dominatori del mondo – colpisce che un narratore includa questo dato come elemento per nulla secondario, per così dire in perenne agguato, sulla scena umana in un tempo come questo segnato da nuove frontiere dell’alimentazione che prevedono la farina di grilli e gli insetti come alimenti portatori di proteine nobili.

Naturalmente il dato qui è materico e simbolico.

Il pensiero nostro corre al Gregor Samsa di Kafka, uomo-insetto già chiamato a simboleggiare la riduzione dell’individuo a creatura schifosa abusiva e insignificante, ma onestamente la suggestione forte qui è anche il primo libro dei Viaggi di Gulliver dove il giovane medico Lemuel si risveglia sotto un albero imbrigliato e inchiodato al terreno da un groviglio di corde (scena intuibilmente citata da Melville in Moby Dick nel rovinoso inabissamento della balena bianca che si porta in fondo al mare il proverbiale, acerrimo nemico, Achab (faccio appena notare che ACHAB è la rivista di conversari, letterari e non, diretta da Nando Vitali), imbrigliato al suo fianco da un groviglio di cime): intorno al giovane Gulliver, con un ronzio inintellegibile, come tanti insetti fastidiosi, i minuscoli lillipuziani.

Il ceto medio agitato su questa scena è, come il protagonista, del resto, il ceto impiegatizio.

E associando le descrizioni rivoltanti dei piccoli grandi vezzi tic disturbi e miserie personali o piccole impudicizie all’assalto degl’insetti e della scarsa igiene generale, l’umanità del romanzo di Vitali può fare il paio con gli impiegati del fisco americano raccontati da David Foster Wallace in The Pale King, gli anonimi compilatori, per conto della agenzia delle entrate USA, dei profili fiscali per la tassazione dei cittadini americani: uomini schifosi afflitti da inguaribili dermatiti, gli eczemi da impiego statale, che tuttavia, detenendo i records economici dei contribuenti, tengono l’intero Paese virtualmente nelle proprie mani, le stesse con cui si grattano gli sfoghi dietro il collo.

Gl’impiegati di Vitali hanno un classico fondo non secondario di cattiveria. Come un classico è vedere il nostro protagonista allo sportello attendere torvo i clienti nelle giornate in cui si pagano le pensioni: l’ufficio si affolla di vecchi incarogniti o patetici, visti perlomeno così da lui e dai colleghi che attendono la carica dei pensionati con disgusto e fastidio. E poi c’è come sempre un capo che, politico e cauto, dispensa piccoli favori e molte fregature, piccole vendette o rivalse, accudito dalla segretaria preferita cui destina i suoi assalti. Un verme schifoso: un insetto, che tanto, stando a un verso di Cardarelli, è destinato ad essere spazzato via dalla prima folata o dal primo scroscio.

Inevitabile, in questo caso, ripensare a certe pagine di Pontiggia o di Rugarli, e, insistentemente, ad alcune pagine di Andrea Carraro, da Il Sorcio ma anche dal recente Sacrificio.

Il destino dell’uomo della posta di Nando Vitali è legato a una sua conversazione impossibile con un bambino, che domina all’inizio e torna nel romanzo, suggestiva quanto il misterioso incontro e la implicita intesa di Mosè con l’emissario del Dio di Abramo, il piccolo mediatore che gli consegna le Tavole della Legge, immaturo all’anagrafe ma sapiente e saggio, calmo e posato, dunque autorevole.

Due osservazioni finali: l’uso, caro alla prosa di questo autore, delle concatenazioni di frasi relative e gerundi, come altrettante visualizzazioni delle stanze dentro le stanze nelle vecchie case di città; e la immensa, inguaribile fiducia di questo scrittore in una formulazione distesa articolata digressiva e pacata ma ferreamente costante della narrazione, una vera sfida alla sbrigatività corrente e alla più cinica redditività delle storie. Grande romanzo: un paio di capovolgimenti e un epilogo spiazzante.


La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini

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