Giuseppe Grattacaso
La morte del campione

Le linee di Suarez

In memoria di Luisito Suarez, architetto del calcio, tracciatore di linee perfette, esegeta del "lancio lungo": quando sul campo bisognava pensare. Nelle immagini che lo ritraggono, la sostanza di un gioco che non c'è più

Dalle strade di La Coruña, Galizia, poco a nord di Santiago di Compostela, non distante da Finisterre, estrema periferia occidentale della penisola iberica, già decisamente oltre il confine del benessere europeo, si poteva sognare solo il mare. E a quel tempo, e nei decenni successivi, partendo dalla Galizia la traversata in mare, che poi non è un mare qualunque ma l’Oceano Atlantico, non si concludeva sulla costa americana proprio di fronte ‒ banchine all’ombra di Lady Liberty ‒ ma si spingeva molto più a sud, un altro sud, emisfero australe, Buenos Aires, Argentina.

Il destino di Luis Suárez Miramontes, che a La Coruña era nato nel 1935 (quando la guerra civile finisce lui non ha ancora cominciato ad andare a scuola), non prevedeva invece viaggi in mare in veste da emigrante. L’estero sarebbe stato Milano, Italia ma anche un po’ Europa, i primi grattacieli, il sogno del miracolo industriale, niente mare, neppure il Mediterraneo che è poco più di un lago, solo nebbia, allora parecchia, l’aria ferma e pesante che certi giorni pareva di piombo. All’Internazionale di Milano Suárez era arrivato nella stagione 1961-62 proveniente dal Barcellona, dove era rimasto per sette anni. Era arrivato al seguito di Helenio Herrera, uno che invece il viaggio atlantico l’aveva fatto partendo da Buenos Aires, classe prestidigitatori settore giuoco del calcio, e in Europa aveva immaginato un calcio moderno, più veloce, più dinamico.

Suárez era veloce e dinamico, soprattutto pensava un po’ prima che il piede toccasse il pallone. Nel Barcellona in Primera División, l’attuale Liga, con il Mago Herrera a far uscire conigli dal cilindro aveva vinto due titoli nazionali. In Spagna l’avevano chiamato El gallego dorado, forse perché inventava pepite con quel pallone di cuoio pesante e puzzolente, fabbricava gioielli con i piedi come nessun altro. Lo chiamavano anche El Arquitecto (il nome pare l’avesse coniato l’amico madrilista Alfredo Di Stefano) e c’è poco da spiegare: tracciava linee con i passaggi, costruiva geometrie che inventavano sale da cerimonia con marmi e stucchi, pianerottoli candidi, balconcini sognanti, corsie preferenziali, nicchie borrominiane, corridoi vasariani. Il pallone sul pavimento in erba stenta (in quei tempi, a pensarci oggi, c’era solo erba stenta) viaggiava guidato da rette e curve che lui aveva disegnato.

Sembrava in effetti, a ricordarlo dopo tanti anni ‒ cercando di dare un colore nerazzurro a quelle giocate da televisore in bianco e nero, solitamente recalcitrante a funzionare, almeno dignitosamente, in occasione degli eventi sportivi, così per partito preso ‒ a ricordarlo ora che è morto (ma muoiono anche gli eroi galleghi, dite davvero?) il maestro di cerimonie di quei campi di erba troppo striminzita e refrattaria a tingersi di verde, lo sguardo fiero e assorto di chi guarda l’oceano e taglia il mare in rotte per palloni, l’incantatore leggero, pronto a farci dimenticare di noi, sembrava, dondolante a altero, sognante e affilato, un po’ Garcia Lorca, un po’ Fred Astaire. E a proposito di Fred Astaire, forse vale per Luis Suárez quello che Leonardo Sinisgalli scrisse per il grande ballerino attore; “è l’uomo o l’angelo che in ogni istante si salva dalla caduta, impuntandosi. (…) A vederlo sorridente sugli specchi lucidissimi che egli percuote ma non tocca, è un’anitra, incapace di sollevarsi a volo, e capace tuttavia di stare in bilico sulla voragine”. Suárez era così sempre sul punto di volare insieme al pallone, sempre a dondolare angelico sull’abisso.

A Milano lo chiamarono subito Luisito, perché era magro, pochi muscoli (certo, doveva disegnare geometrie, sognare di volare e pensare, che se ne faceva di quegli orpelli da pugile suonato?), la figura esile che non potrebbe avere oggi un giocatore di calcio. Sembrava piuttosto un ballerino e, come un ballerino (provate a guardare quei pochi video di allora), non guardava mai a terra, il viso era puntato in alto, guardava davanti a sé e il pallone viaggiava per proprio conto: lui l’aveva già ammaestrato, l’architetto aveva già tracciato le linee.

Giocava con il numero 10 e giocava da regista. La palla viaggiava veloce, venti trenta quaranta metri, e si fermava dove Luis aveva visto che sarebbe potuto arrivare uno capace di correre verso la porta, fate conto Jair o Domenghini o Mazzola. Lancio perfetto, tuonava il telecronista, che era immancabilmente Niccolò Carosio. Roba da architetti, ho solo disegnato le righe, pensava lui.

Con l’Inter Luisito vinse tre scudetti, due Coppe dei Campioni, e due Coppe Intercontinentali. E che Inter! Inutile ricordare i nomi. Quelli che nel 1963 avevano almeno tre anni, forse non sanno declamare a memoria L’infinito di Leopardi, ma vi sciorinano senza tentennamenti la formazione dell’Inter: Sarti, Burgnich, Facchetti, Bedin, Guarneri, Picchi… (due settenari l’inamovibile difesa).

Luisito Suárez è stato il primo spagnolo a vincere il Pallone d’oro. Nel Barça, dove giocava da trequartista, segnò 61 gol in 122 partite, nell’Inter 42 in 247, più un numero innumerevole di assist (che allora non si contavano e non si chiamavano assist). Nell’una e nell’altra squadra tirava tutti i rigori, perché non c’era nessun altro bravo come lui (nemmeno Mariolino Corso, tanto per dire, nemmeno Sandrino Mazzola ‒ tutti dorados, tutti col diminutivo, tutti mingherlini). La sua carriera è terminata alla Sampdoria: tre campionati, 73 partite 13 gol.

A Gianni Mura, che in una celebre intervista nel 2014 gli chiese, perché oggi il lancio lungo si usa poco, Luis Suárez Miramontes rispose «perché pochi sono capaci di farlo».

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