“Alcools” di Apollinaire dal 1913 a oggi
Le diversità di una poesia “aperta”
Una nuova edizione della seconda raccolta del poeta «suscitatore di idee nei giorni della nascita del movimento cubista». Curata da Fabio Scotto (francesista e a sua volta poeta), è frutto di una «lunga fedeltà traduttiva» che arriva in questo lavoro a esiti «tra i più esatti e ispirati»
Che Wilhelm Apollinaris de Kastrowitsky (Roma 1880 – Parigi 1918) – nome ben presto volto in Guillaume Apollinaire – abbia rappresentato uno snodo decisivo della poesia moderna, non solo francese, è acquisizione critica che nessuno mette in dubbio. La singolare, cosmopolita, affascinante figura giunta a Parigi con il nuovo secolo è destinata a occuparne in breve volgere il centro della vita artistica e letteraria e a esercitare un’influenza fuori scala i cui effetti dureranno a lungo dopo la sua prematura scomparsa. Suscitatore di idee, promotore di incontri, esposizioni, fogli, pubblicazioni, è con Picasso, Derain, de Vlaminck e i poeti André Salmon e Max Jacob al leggendario Bateau-Lavoir nei giorni della nascita del movimento cubista, ma è al contempo in contatto con i futuristi italiani, e con Giorgio De Chirico, con Giuseppe Ungaretti. In poesia le sue prime prove erano state sulla scia del dominante simbolismo, ma la passione per tutto ciò che velocemente intorno a lui si muove non tarderà a portarlo lontano dall’aura squisita di quelle tessiture, da quello scelto cerchio di parole per orientarsi su campiture che contemplino più registri, più aperture verso quanto, detta semplicemente, è la vita con le sue luci e le sue urgenze. E questo risulta chiarissimo fin dalla sua seconda raccolta poetica, Alcools, uscita presso il “Mercure de France” nel 1913 – anno in cui aveva pubblicato anche un importante libro sui pittori cubisti – in poco più di cinquecento copie, nient’altro che il punto di partenza verso una diffusione e una fortuna sorprendente, che non si sono mai esaurite.
Che libro è dunque questo Alcools, su cui la critica francese da subito si interroga, trovandolo con sorpresa privo di punteggiatura, in un’alternanza di componimenti in rime della tradizione francese e lunghe lasse di versi liberi, lessicalmente più che composite? Riconoscendolo come una voce di rottura di consolidati equilibri nel suo aprirsi alla scomposizione, al prosastico, fin all’argotico, e al tempo stesso tributario di un gusto per la forma deliziosamente desueta della ballata medievale, folklorica quando, per dirla con Marcel Raymond «due parole gli bastano, le più semplici, per creare un’atmosfera»? Perché effettivamente c’è tutto questo in Alcools: c’è Zone, con cui il libro si apre, e appare subito come il manifesto di una nuova poesia che va per strade mai battute – e la critica ne iniziò a parlare come di “poesia cubista” – e c’è, immediatamente dopo, Le Pont Mirabeau, testo di raffinatezza metrica e incantevole musicalità, tra i più amati in ogni tempo e più tradotti. Segue, per inequivocabile presa di possesso della scena da parte del soggetto, La chanson du mal-aimé, da cui idealmente si può far discendere un filone di poesie d’amore che sarà cospicuo e strettamente intrecciato con le vicende biografiche dell’autore (notevoli e parimenti cospicue sono le sue raccolte epistolari). Così, anche solo soffermandosi su questi primi tre componimenti del libro, se ne può già cogliere la natura composita e soprattutto l’intento innovativo di una poesia che «rinuncia a costituirsi come sistema chiuso» (Gaétan Picon) nel certo distanziarsi dalla «gerarchia simbolista».
Di questo libro esce ora in traduzione italiana una nuova edizione curata da uno dei nostri maggiori francesisti e insieme sperimentato poeta, Fabio Scotto – suo l’ingente lavoro che ha fatto conoscere in Italia l’opera in prosa e in versi di Yves Bonnefoy – che è come dire una garanzia (Alcool, Passigli, Firenze 2023, 247 pagine, 19,50 euro). Nella sua densa premessa di spunti critici al volume Scotto fa presente il problema che non può eludere chi si trovi ad affrontare la traduzione integrale di un lavoro tarato a tante e complesse altezze di registri. Perché un conto è trascegliere per un quaderno di “imitazioni”, come diversi grandi poeti del Novecento hanno fatto, e con eccellenza di esiti (Sereni, Caproni, Dal Fabbro…), e un conto è muoversi tra tanta anche esibita diversità, nella restituzione di un insieme, senza perdere per così dire il bandolo della matassa. E Scotto ha lavorato con gli strumenti della filologia e il metronomo del poeta, con quel rispetto per la lettera che è una costante della sua lunga fedeltà traduttiva quale nulla ha a che vedere con il frettoloso (di servizio?) mot-à-mot. Così le sue versioni nel renderci, a fianco del testo originale, un libro che a più di un secolo di distanza non ha perso un’oncia del suo fascino e della sua freschezza, si situano tra le più esatte e insieme le più ispirate, nel confronto critico cercato con quante le hanno suggestivamente precedute.