Nando Vitali
Una specie d'amore

Il treno per Sala Consilina

«Così le rose silvane appassirono, si spensero, ma non fino a morire del tutto. Fu bella quella notte quando mi sentii fiero di me coltivando le rose fra lenzuola pulite dentro di te. Nell’odore di bucato ti dissi “ti amo”»

Su quel treno regionale per Sala Consilina non c’era un ragazzo di vent’anni, ma un carico di sogni e rabbia.

Il legno striato del sedile, una scia di frasi d’amore, oscenità incise, e un odore crudo e aspro di sporco. L’anima in tumulto, la mia immaginazione e un muro di cinta vicino a casa tua, da dove sbucava un albero di limoni. Quante volte ero salito per quelle scale tornando solo di notte fra cani randagi fino a ficcarmi nel mio letto incollato alla radiolina prima di addormentarmi felice.

Immaginare oggi è morire giorno per giorno. Giornate inventate, spesso noiose, per un rimpianto dal quale non si esce. E quel carbone respirato di allora ride nel mio sangue.

Su quel regionale l’attesa trepidante di un giovane ribelle in quella estate ostinata e calda.

Troppo lento quel treno sulle rotaie impastate, troppo veloci i battiti del cuore. Troppo di troppo di ogni cosa.

Di tutti mi ero fatto nemico, fuorché delle rose silvane.

Le rose silvane non hanno spine, soltanto fame di giovinezza senza alfabeti, accenti sconnessi e spesso violenti. Bastava poco a cadere nella rete dell’incoscienza a quel tempo di azzardi.

Ma quel treno tardava.

Per giunta a un tratto si fermò.

Ci fu un piccolo trambusto, sudore, degli annunci da decifrare, e io che chiedevo a vanvera.

Avrei voluto scendere e di corsa tracciare una linea retta verso di te come se stessi annegando e dovessi salvarti.

Solo un gregge di pecore che attraversava i binari.

Poi con sforzo sovrumano quel treno per Sala Consilina riprese pigramente a sferragliare.

Il sole dal finestrino scottava. Il mio amore per quelle rose silvane si faceva prepotente.

Mi sarebbe piaciuto camminare a piedi nudi sull’erba con te. O perdermi nel bosco, come accadde una volta, per non farci trovare mai più.

I sogni si dissolvono all’alba, si dice. La felicità ha il braccino corto. Dura poco e poi punge per sempre.

Simile a certi pugni nervosi dati e ricevuti per il mio eccesso di udito, maneggiarti di baci e note tirate su con la chitarra fino a quelle più dolci, poi di nuovo a quelle altissime della voce che voleva essere sempre di più. Infine nel guscio delle tue braccia, fra le rose silvane.

Quel treno per Sala Consilina mi mostrò coraggioso. Vederti che mi aspettavi fu una promessa che non poteva non essere mantenuta. Le rose silvane non erano appassite, anzi ancora vive, foriere di un lungo cammino.

Così non fu.

Alla fermata del solito pullman, dopo esasperanti parole, brutali offese, mi dicesti “Mio padre aveva ragione”.

Una figlia merita di meglio. Forse aveva ragione. Anzi l’aveva.

Così le rose silvane appassirono, si spensero, ma non fino a morire del tutto.

Fu bella quella notte quando mi sentii fiero di me coltivando le rose fra lenzuola pulite dentro di te. Nell’odore di bucato ti dissi “ti amo”.

Ed era vero, mentre quel treno per Sala Consilina camminava lento nel sole rovente, nel mio cuore di cartone qualcosa di oscuro fece quadrato al posto del cielo. 


La fotografia accanto al titolo è di Giuseppe Grattacaso

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