Attilio Del Giudice
Un racconto onirico

I sogni di Walter

«Si svegliò di soprassalto. “Porca vacca – pensò – ho fatto un altro sogno strano, però stavolta gli amici sono stati carini.” Andò in cucina per bere un bicchiere d’acqua. La luce della cucina si riverberava nella camera da letto e gli permise di osservare Evelina»

Anastasi Walter sognò d’aver perduto una gamba, un braccio e quasi tutta la spalla sinistra.

“Che disastro! E adesso come faccio?” Guardò fra le lenzuola, sotto il letto, sopra l’armadio, nei cassetti, in cucina, nel frigorifero, finché gli venne come un’illuminazione.

Nel suo paese, in quel tempo, c’erano due bar: il bar Cimmino, di fronte alla chiesa, dove i vecchi giocavano a briscola, e il bar Boys, nella piazzetta con la vasca e il monumento ai caduti della 15-18.

Walter andò dritto dritto al bar Boys ed entrò nella saletta del biliardo con la sicurezza di uno sceriffo. Difatti stavano là tutti: Peppe Muzzone, Peppe Manoleggia, Giacomino il Ricciuto, detto anche Calamita d’oro, Mimì Ricacà, Mario il Professore e, in un angolo buio perfino Gigino Mazzasecca, emigrato in Germania nel 73.

“Allora, ragazzi, chi ha nascosto il mio braccio, la mia gamba e la mia spalla sinistra? Non sono scherzi da farsi, quella è roba mia. Ce l’ho dalla nascita e ci sono abituato. Forza, chi è stato?… Mario, mi meraviglio di te!”

Mario il Professore non gli badò. Ingessò con calcolata lentezza il tacchetto della stecca, guardò le biglie e i birilli e vaticinò, secondo il suo costume: “Due punti, pallino di quattro e impallatura.”

“Mario, Ascolta! Tu sei un grande giocatore di biliardo, ma sei anche un intellettuale, una persona sensibile. Cerca di capire!”

Mario il Professore lo guardò fisso negli occhi e senza togliere la sigaretta dalla bocca, disse: “ Walter, io vorrei che tu ti mettessi in testa, una buona volta per sempre, che non hai il diritto di responsabilizzare gli altri, di colpevolizzare tutti noi. Qui nessuno sa niente del tuo braccio e della tua gamba.”

“E della mia spalla sinistra.” Aggiunse Walter.

“E della tua spalla sinistra” completò Mario il Professore.

“Allora, secondo te che devo fare?”

“Non sarò certo io a dirti quello che devi fare.”

“Ma…. Non so.. Almeno un consiglio?”

“Walter, sono cazzi tuoi!”

“E questi sarebbero gli amici?” Disse Walter col nodo alla gola.

A questo punto si svegliò e solo dopo alcuni minuti si rese conto di essere a Milano negli anni 80.

Ancora in mutante e mentre inzuppava nel latte i biscotti al pistacchio, che la zia Erminia aveva mandato dal paese, Anastasi Walter ebbe la malaugurata idea di raccontare questo sogno per filo e per segno a Evelina, la moglie.

La moglie ascoltò senza interrompere e, alla fine, dedusse che era un classico sogno autopunitivo. “Il sogno di chi si trova in colpa e ha la coscienza sporca, di chi è infedele e fa i porci comodi suoi. Ma una moglie ha la sua dignità, anche se non è milanese, anche se sta in casa, dalla mattina alla sera, come una serva, a cucinare, lavare, stirare e pulire il cesso!”

Insomma una scenata terribile e Anastasi Walter, anche quella mattina, timbrò il cartellino con quattordici minuti di ritardo.

Nel corridoio incontrò il Direttore del personale Anghilleri, che gli disse di raggiungerlo nel suo ufficio.

“S’accomodi, prego! Lei, signor Anastasi, è napoletano, non è vero?”

“No, in verità, sono di Castel Morrone, in provincia di Caserta”

“Vabbe’ è lo stesso. Mi ascolti signor Anastasi! Io, e vorrei si sapesse, non ho mai nutrito pregiudizi nei riguardi dei meridionali, anzi, in molte circostanze, ho dovuto constatare e con piacere che i meridionali sono, talvolta, ottimi lavoratori, scrupolosi, pieni di zelo e buona volontà. Ma lei sa bene, Signor Anastasi, che qui dentro non tutti la pensano come me e non tutti hanno una visione aperta e democratica.

Ora, lei lo deve ammettere, con le sue innumerevoli distrazioni, coi suoi ritardi sembra voler avallare proprio il pregiudizio del meridionale incapace e scansafatiche. Signor Anastasi, le voglio parlare come un padre, me lo consenta, io sono molto più anziano di lei. A me dispiace, sinceramente dispiace, perché lei è giovane e mi pare anche laureato. Ai miei tempi un giovane laureato, specialmente nel periodo di prova – e lei è ancora nel periodo di prova – avrebbe manifestato più attaccamento al lavoro e, francamente, più senso di responsabilità.”

“Ma i tempi sono cambiati. – Disse Walter – Oggi si fanno brutti sogni, l’Io è diviso. La condizione dell’uomo contemporaneo…”

Il direttore del personale, che scolasticamente s’era fermato alla licenza di ragioniere e che non aveva presumibilmente letto il libro di Ronald Laing, ritenne che sto “io diviso” fosse una presa per i fondelli, infatti concluse con un minaccioso: “Stia attento, Anastasi, stia attento”!

Anastasi Walter quel giorno fu, al contrario, particolarmente disattento. Sbagliò due programmi, bestemmiando i morti del microprocessore e, al bar, durante l’intervallo, si versò sulla giacca più di mezza tazzina di caffè, anche perché quel mus de mona di un padovano, con l’occhio libidinoso, aveva detto: “Guarda, guarda!” e lui s’era girato di scatto. Il “guarda, guarda” era riferito alla dattilografa (era addetta anche alle fotocopie) Deborah, denominata: “Il più bel culo della baracca” particolarmente valorizzato, quel giorno, da una gonna in pelle lucida assai corta e fasciante.

Purtroppo la detentrice di tali grazie all’Anastasi Walter non se lo filava per niente, specialmente da quando, da semplice dattilografa, era diventata la pupilla del direttore generale, membro influentissimo nel Consiglio di Amministrazione, che la chiamava: “Boccuccia di rosa”.

Nel Centro ricreativo aziendale e in altri luoghi aveva preso corpo la voce che i due fossero amanti e che andassero a smaltire la loro libidine in un alberghetto a ore, molto modesto e periferico, dove il direttore, per motivi ambientali, difficilmente poteva essere identificato.

Questa voce, incautamente, veniva alimentata dalla Bergotti, dalla Quirzi, dalla Bergantini, dal Micalizzi della Commissione Interna, dal mus de mona Zanchettin e dal Fellani Elpidio, in Cassa Integrata da sei mesi, ma ugualmente fruitore e attivo propagandista di notizie fresche e clamorose. Impiegati questi di quarto e quinto livello; ma si diceva che in due occasioni un’allusione specifica fosse stata fatta addirittura da un ottavo livello e precisamente dal dottor Corbetti, persona riservata, serissima e tra i primi venti nel master della Bocconi. In verità tale testimonianza illustre, nonostante fosse espressa metaforicamente, poteva, però, subire un appannamento per via di un’altra voce che la riguardava personalmente. Giù, in portineria, c’era chi era pronto a giurare di aver assistito, non visto, a una scenetta assai piccante. Protagonisti della scenetta erano il dottor Corbetti, che veniva dalla Bocconi e un giovanotto laziale, possessore di porsche rosso amaranto, capelli ossigenati e catena d’oro girocollo, il quale, nel piazzale antistante il posteggio riservato alla dirigenza avrebbe gridato: “ A coso te ne devi anna! M’hai rotto, sei vecchio!” E il Corbetti, piangendo senza ritegno, avrebbe gridato a sua volta: “No, Guido, no! Guido, Guido mio, se mi lasci, mi ammazzo!”

In ogni modo, con o senza la partecipazione straordinaria di un ottavo livello, Walter, col metodo deterministico del Causa-Effetto, aveva dedotto che sicuramente Deborah godeva dell’appoggio del direttore generale, ma escludeva che fra i due ci fosse una relazione sessuale. Infatti se ci fosse stata, il direttore, sessantenne, sposato e padre di due gemelle di 19 anni, entrambe all’università, l’avrebbe attentamente nascosta e mai avrebbe chiamato la ragazza, coram populi: “Boccuccia di Rosa”. Ma Walter era in minoranza e non riuscì a convincere nessuno della sua tesi, come succede sempre a chi vuole opporre un ragionamento logico a un chiacchiericcio pruriginoso di gruppo.

Per quanto riguarda, poi, i suoi precedenti con Il più bel culo della baracca, doveva riconoscere che c’era stato poco: un solo bacio in ascensore e cinque o sei parole romantiche, dette, però, per motivi di ansietà, in dialetto morronese, così che la ragazza, che non mancava di una sua vena ironica, chiese se stesse parlando in etiopico.

Dopo la sirena, un po’ intontito e col borotalco sulla giacca, procurato dalla sempre sollecita signorina De Vincentis, che nutriva per il giovane meridionale un po’ imbranato una sorta di affetto protettivo (una molto robusta, questa De Vincentis, seconda classificata peraltro, nel getto del peso in una selezione regionale), Anastasi Walter prese la metropolitana, prese la circolare destra, prese la pioggia, aspettando quasi venti minuti nella fermata facoltativa quel maledetto 42 e fradicio e incazzato, giunse, finalmente, a casa sua: 45 metri quadri, Trecentocinquantamila lire mensili di fitto, più spese di condominio, prezzo di favore in quanto il proprietario, don Ciccio, proveniva anche lui da un piccolo paese in provincia di Caserta.

(Come avesse fatto questo don Ciccio i soldi a Milano e diventare proprietario di appartamenti, resta un mistero).

Sulla porta la moglie lo baciò come se niente fosse successo al mattino, inoltre profumava di mela acerba perché s’era fatto uno sciampo e teneva ancora in testa l’asciugamani umido, a guisa di turbante che le conferiva un’aria di sensualità tropicale, che Walter, infatti, già in altre occasioni, aveva denominato: “il turbante erotico”. Insomma lei ci aveva l’intenzione, ma Walter non si sentiva tanto bene, infatti cenò mal volentieri e dopo il telegiornale della sera, andò a letto. Sognò John Wayne, che gli era stato sempre antipatico e che si era ingrassato e non riusciva a montare a cavallo, poi, con quei salti pindarici dei sogni, bussarono alla porta. La moglie prima di aprire chiese: “Chi è?”

“Telegramma, Signora”

“Oddio e che sarà? Walter, Walter, telegramma!”

“Che è successo?”

“Telegramma!”

“E che dice?”

“E che ne so. Hanno bussato. Vai tu! Io ci ho paura.”

Toccava a lui, era l’uomo di casa. Andò alla porta, ma non c’era anima viva. A terra vide una busta, la raccolse, era il telegramma. L’aprì e lesse:

“Ritrovati braccio, gamba e spalla. Ritirare il pacco alla stazione centrale. Gli amici del bar Boys.”

Si svegliò di soprassalto. “Porca vacca – pensò – ho fatto un altro sogno strano, però stavolta gli amici sono stati carini.” Andò in cucina per bere un bicchiere d’acqua. La luce della cucina si riverberava nella camera da letto e gli permise di osservare Evelina. “Oh, si è addormentata col turbante erotico in testa.” Ebbe un moto di tenerezza: “Poverina, ci aveva l’intenzione.”

Ora, però, la voglia di fare all’amore venne a lui, ma non la svegliò. Non avrebbe mai osato. Non era di quegli uomini egoisti, che non hanno rispetto delle donne e del loro sonno sacrosanto. Così orientò i suoi pensieri di natura vagamente onanistica verso Il più bel culo della baracca, sulla base di quell’unico bacio in ascensore. Sì, perché quel bacio era stato l’unico, è vero, ma non era stato un bacetto qualunque, era stato piuttosto un bacio, per così dire, ortodosso alle modalità sensuali più evolute.

Intanto s’era fatta l’alba e dopo poco suonò la sveglia. Evelina si alzò, si rese conto dell’asciugamani ancora in testa, lo tolse con un gesto nervoso, andò nel bagno e subito dopo in cucina a preparare le colazioni, come faceva ogni mattina.

I biscotti che la zia Erminia aveva mandato dal paese erano durissimi, ma, spugnati nel latte, diventavano accettabili. Li mangiarono in silenzio, a un certo punto, Walter per rompere il ghiaccio, disse: “ Evelì, che tipo che sei, ieri sera ti sei addormentata col turbante erotico in testa.”

“Sì, sì. Sono una cretina! Mi prenderei a schiaffi.”

Lui non aggiunse altro, non era aria per qualche battuta di spirito e, naturalmente, si guardò bene dal raccontare il nuovo sogno.

Quel giorno, il 18 marzo 1980, Anastasi Walter timbrò il cartellino in perfetto orario senza nemmeno un minuto di ritardo.


Le fotografie sono di Roberto Cavallini.

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