Raoul Precht
Periscopio (globale)

Le mosche di Golding

A trent'anni dalla morte, rileggiamo l'opera di William Golding, lo scrittore che, con il suo fortunato romanzo "Il signore delle mosche”, aveva previsto il ritorno della "banalità del male” dopo gli orrori del nazismo

Alla fine degli anni Sessanta fece scalpore negli Stati Uniti un esperimento sociale compiuto da un insegnante delle medie superiori di Palo Alto, in California, con la sua classe. Per spiegare ai suoi studenti come fosse stato possibile per il nazionalsocialismo impadronirsi non tanto della Germania, ma delle coscienze di pressoché un intero popolo, l’insegnante, che si chiamava Ron Jones, diede vita all’interno della classe a meccanismi di cieca obbedienza e di conformismo assai simili a quelli che avevano favorito il nazismo, creando un movimento che chiamò «The Third Wave» («La terza onda»). Non entro qui nei particolari dell’iniziativa, che ebbe un notevole e inquietante successo fra i giovani coinvolti ma rischiò a un certo punto di sfuggire di mano all’insegnante, con il pericolo molto concreto di creare un gruppuscolo neonazista. Mi limito a ricordare che sull’esperimento di Jones si baseranno in seguito un programma televisivo, un romanzo (The Wave di Todd Strasser), vari spettacoli teatrali, un musical e più recentemente il film Die Welle diretto nel 2008 da Dennis Gansel e una serie TV, anch’essa tedesca, del 2019, dal titolo Wir sind die Welle. Chi fosse interessato alla questione e volesse approfondirla può ricorrere quindi a uno di questi supporti.

Mi preme di più ricordare invece un altro dato di fatto, e cioè che la letteratura molto spesso anticipa la realtà, ovvero ne consente un’interpretazione più profonda. Il fatto che dei giovani o giovanissimi possano riprodurre, in determinate circostanze e all’apparenza senza un motivo scatenante, delle strutture sociali autoritarie e dittatoriali era stato infatti già esplorato magistralmente a metà degli anni Cinquanta dalla letteratura, appunto, e più precisamente da uno scrittore inglese, che nel 1983 avrebbe ottenuto, soprattutto per il romanzo in questione, il premio Nobel. Sto parlando di William Golding e del suo Lord of the Flies (Il signore delle mosche).

Nato nel 1911 in Cornovaglia, studente di letteratura a Oxford, poi insegnante e marinaio, Golding è morto trent’anni fa, il 19 giugno del 1993, dopo una lunga carriera costellata di romanzi e racconti di diverso valore e fortuna, nessuno dei quali ripeté comunque il successo del primo, che arrivò a vendere più di un milione di copie. Eppure, alla sua uscita in Gran Bretagna nel 1954 furono relativamente in pochi ad accorgersi del romanzo, che peraltro era stato respinto da una ventina di editori, prima che Faber & Faber decidesse di pubblicarlo; uno dei lettori della stessa Faber, peraltro, aveva scritto nella prima scheda di valutazione che a suo parere non si trattava che di una « fantasia assurda e priva d’interesse sull’esplosione di una bomba atomica nelle Colonie ». Per molti, che ne fecero evidentemente una lettura assai superficiale, non era insomma che l’ennesimo romanzo distopico e post-apocalittico, genere in voga in Gran Bretagna negli anni Cinquanta – si pensi a mo’ d’esempio al quasi contemporaneo The Day of the Triffids (Il giorno dei trifidi) di John Wyndham. Sarà solo cinque anni dopo, nel 1959, con l’uscita del Signore delle mosche negli Stati Uniti in edizione economica, che Golding conoscerà un vero successo planetario. Il libro sarà poi portato due volte sullo schermo, nel 1963 con grande eco e diversi riconoscimenti da Peter Brook e poi nel 1990 attraverso un remake di Harry Hook.

Ma di cosa parla esattamente Il signore delle mosche? In breve, è la storia di un gruppo di ragazzi, di età variabile fra i cinque e i dodici anni, i quali, dovendo essere evacuati in Australia dopo una catastrofe forse di tipo nucleare, sopravvivono a un incidente aereo e si ritrovano abbandonati a se stessi, senza la presenza di adulti, su un’isola tropicale. Per garantirsi la sopravvivenza danno vita a una specie di società primitiva, fondata dapprima sul gioco, poi sempre più sulla prepotenza dei più forti, in cui l’autoritarismo, lo sprezzo di ogni regola e lo sfruttamento dei deboli si fanno sempre più marcati con il passare dei giorni, riproducendo la stessa barbarie che caratterizza la società degli adulti. I ragazzi saranno poi salvati in extremis da una nave di passaggio, ma due di loro avranno comunque perso la vita durante i giochi cruenti a cui la comunità si è prestata. Ci si può allora legittimamente chiedere: salvati sì, ma da cosa? Da una natura ostile o non piuttosto da se stessi? E quali ulteriori conseguenze potrà avere la perdita dell’innocenza, questa ferita irreparabile che si è prodotta nelle loro coscienze?

L’idea del libro venne a Golding da un’esperienza personale: nell’immediato dopoguerra, ripreso l’insegnamento, aveva a sua volta compiuto un esperimento in una classe che era stata divisa in due gruppi e poi abbandonata a se stessa, con conseguenze talmente negative che Golding si era trovato a dover quasi sedare una rissa. Quanto ai riferimenti letterari, non mancano: dall’ovvio Robinson Crusoe al conradiano Cuore di tenebra; oppure, se si cerca un esempio a contrario, si può pensare a un libro per ragazzi come The Coral Island (L’isola di corallo) di Robert M. Ballantyne, un romanzo di metà Ottocento che aveva inteso celebrare, sempre attraverso il naufragio di un gruppo di ragazzi, ma ingegnosi e capaci di domare la natura ostile, le virtù e la superiorità dell’educazione vittoriana. In un certo senso Golding capovolge completamente il modello, suggerendo che l’istruzione non sia che una sovrastruttura, con scarsissima presa (malgrado le apparenze) sulla struttura maligna che ci innerva.

Una scena del film “Il signore delle mosche”

Gli interrogativi che il Signore delle mosche suscita sono da un lato storicamente circoscritti – va ricordato che il libro è fortemente marcato dalle esperienze belliche e dallo sconvolgimento morale che esse hanno provocato – e dall’altro universali. Come universale nonché eminentemente allegorico risulterà il titolo, poiché il «signore delle mosche» altro non è che una traduzione dell’ebraico Ba’alzevuw, ovvero Belzebù. Attraverso la sua parabola Golding ci mette di fronte a certe costanti del pensiero e del vissuto che indicano con chiarezza la banalità del male insito in tutti noi. Le derive del nazionalsocialismo e di qualunque altra dittatura, sostiene in pratica Golding, non sono appannaggio di una sola nazione o di determinate classi sociali: tutti noi, a seconda delle circostanze, possiamo essere preda di suggestioni egoistiche e autoritarie, tutti noi, in assenza di meccanismi che ci frenino, possiamo trasformarci facilmente e fatalmente in carnefici.

In Italia, Golding – fatto salvo il primo romanzo – non ha mai avuto molti lettori ed è rimasto confinato fra gli specialisti di letteratura inglese, tanto che anche il conferimento del premio Nobel fu accolto da una certa sorpresa. Pubblicato inizialmente dall’editore Aldo Martello, Golding è poi confluito nel catalogo di Mondadori, ma i suoi libri escono con il contagocce, anche se qualche titolo viene pubblicato anche da altri editori come TEA, Longanesi o Marotta e Cafiero. In italiano era anche apparso nel 1983, per l’editore milanese De Carlo, un racconto molto particolare, Envoy Extraordinary (tradotto con L’inviato dell’imperatore), contenuto in origine nel volume The Scorpion God, racconto che, al di là della sua fruibilità intrinseca, costituisce il canovaccio da cui Golding trasse la sua unica opera teatrale, The Brass Butterfly (Farfalla d’ottone), del 1958, rappresentata per un certo periodo con successo in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Da ricordare ancora, fra i numerosi altri romanzi, The Inheritors (Il destino degli eredi), del 1955, The Spire (La guglia), del 1964, The Pyramid (La piramide), del 1967, Darkness Visible (L’oscuro visibile), del 1979 nonché la trilogia To the Ends of the Earth (Ai confini della Terra), composta negli anni Ottanta. A testimonianza dell’ampiezza delle sue fonti d’ispirazione, le ambientazioni storiche sono le più disparate: si va dagli uomini primitivi alla Grecia antica, dal Medioevo alle guerre napoleoniche, dall’entre-deux-guerres alla contemporaneità.

Nella sua vita Golding ha dovuto combattere vari fantasmi: anzitutto, l’ubriacatura di violenza e crudeltà della Seconda guerra mondiale, durante la quale come sottufficiale della Royal Navy scampò di misura all’affondamento della sua nave ma non ai pesanti bombardamenti di Portsmouth, e partecipò poi fra l’altro allo sbarco in Normandia e alla terribile battaglia dell’isola di Walcheren; in seguito, l’alcolismo, una debolezza a cui non ha saputo sottrarsi e che ha funestato gli ultimi decenni della sua vita. Non è mai venuta meno, tuttavia, la sua capacità di concentrarsi sui progetti letterari avviati e di portarli a termine. A caratterizzare l’opera di Golding è da un lato la capacità di scrivere libri sempre diversi tra loro e di non adagiarsi sugli allori ripetendo la medesima formula fino all’esaurimento; dall’altro, il rifiuto di qualunque sperimentalismo. Ma soprattutto va rimarcata la sua chiarezza tipicamente anglosassone (che non equivale qui a povertà lessicale o sintattica), grazie alla quale è in grado di veicolare i suoi messaggi senza renderli mai didascalici. Golding incarna la figura dello scrittore-moralista nel senso antico del termine (si potrebbe risalire almeno sino a Swift): figura che, come lui stesso ricorda nel saggio che accompagna nella versione italiana Il signore delle mosche, si trova sempre in una posizione difficile, per così dire a metà del guado: dev’essere divertente e coinvolgere il suo lettore e al tempo stesso far passare un messaggio sovente sgradevole per il lettore stesso. Sempre nello stesso saggio, dal titolo Fable, Golding esplicita il proprio pensiero, il passaggio cioè dalla fiducia che « una struttura sociale corretta avrebbe prodotto buone intenzioni, e che quindi una sua riorganizzazione avrebbe potuto eliminare tutti i mali della società » alla constatazione, palaesatasi nell’immediato dopoguerra, che « l’uomo produce il male come l’ape produce il miele », spesso senza cioè neanche rendersene conto, oppure rendendosene conto e omettendo di applicare quelle remore morali che gli consentirebbero frenarsi a un passo dal precipizio. Nel suo libro (e nel suo pensiero) la capacità di produrre il male, che inizialmente riteneva fosse una condizione anomala ed eccezionale, diventa una delle peculiarità dell’uomo; e da questo discende inesorabilmente che ben più grave di ogni pericolo esterno è quello che ci spia, ed è in agguato, all’interno della nostra stessa personalità. Questo, in definitiva, il lascito di un autore che meriterebbe un’attenta rilettura.

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