Giuseppe Grattacaso
A proposito di "Luce del Nord”

La luce di Onofri

Elliot ristampa il primo romanzo di Sandro Onofri, lo scrittore delle grandi realtà nei piccoli simboli morto a 44 anni nel 1999. È la storia di un giovane uomo in fuga da se stesso e dalle sue responsabilità perché non sa vivere la vita con pienezza

La vicenda prende avvio a New York ‒ che appare metropoli opaca e sciatta, gli interni illuminati dalla luce livida di tristi lampade al neon, i pavimenti della metropolitana lungo i quali scorrono rigagnoli fetidi ‒ e a New York si conclude, in un andamento circolare che dovrebbe segnare una presa di coscienza da parte del protagonista, la consapevolezza del suo ruolo tra le cose e le persone del mondo. In mezzo c’è Roma, marcia e affascinante, non sempre accogliente, a suo modo sfuggente e definitiva, in particolare la Roma, un tempo estrema periferia, tra la Magliana e il Trullo, “marciapiedi grassi, invasi dai musi delle macchine posteggiate e dai rifiuti del mercato: cassette di frutta da cui uscivano mazzi di foglie scartate, bucce già annerite, cartacce, scatole vuote”. È una Roma viva, maleodorante e stravagante, dove cominciano chiaramente a manifestarsi i segni di un degrado che è innanzitutto morale, prima di essere economico e sociale. Gli anni sono quelli, fervidi, appassionati, a tratti disperati, quasi sempre contraddittori, tra la metà dei Settanta e l’intero decennio successivo.

Luce del Nord è l’opera narrativa d’esordio di Sandro Onofri, edita la prima volta nel 1991, ed ora pubblicata dall’editore Elliot, con una lucida e insieme emotivamente partecipata postfazione di Nicola Fano. Sandro Onofri, morto nel 1999, quando aveva da poco compiuto i quarantaquattro anni, è stato uno degli interpreti più accorti e consapevoli di quell’ultimo scorcio del secolo scorso, sia attraverso i romanzi (oltre a Luce del Nord, sono da annoverare Colpa di nessuno e L’amico d’infanzia), che con i reportage narrativi Vite di riserva e Le magnifiche sorti. Racconti di viaggio (e da fermo), l’attività giornalistica per «l’Unità» e «Diario della settimana», e quella di insegnante di italiano, svolta con un attaccamento tormentato e ardente, che lo condusse ad abbandonare il giornalismo per dedicarsi prevalentemente all’insegnamento e lo portò a scrivere pagine intense sul mondo della suola, poi raccolte nel volume postumo Registro di classe, un libro di culto per più di una generazione di professori e studenti.

Per la struttura e le modalità di svolgimento della trama, per l’atteggiamento con cui il personaggio presenta se stesso e si racconta, Luce del Nord presenta tutte le caratteristiche di un romanzo di formazione. Il protagonista Angelo – che nel corso della storia assumerà la falsa identità di Cesare, fingendosi un amico di Angelo ‒ si trova alle prese con incontri e spostamenti, che dovrebbero permettergli di capire chi è veramente, liberarlo dall’impaludamento in cui si trova, insomma farlo crescere e diventare adulto. In effetti il ritorno a Roma, determinato dall’aggravarsi delle condizioni di salute della madre, che il protagonista non vede da qualche anno e con cui ha sempre intrattenuto un rapporto affettivo difficile, dovrebbe significare per Angelo anche un viaggio alla riscoperta di se stesso, nel tentativo di mettere ordine nella sua esistenza, rendersi conto di ciò che gli si muove intorno, soprattutto prendere atto di quello che gli si muove dentro. Sta di fatto però che l’età dell’adolescenza è finita da un pezzo e Angelo è già consegnato, almeno anagraficamente, al mondo degli adulti.

Che la gioventù sia una storia ormai conclusa è chiaro anche al protagonista fin dalle prime pagine del romanzo: “Che stupida età è la gioventù. Passata tra pomeriggi assolati, notti insonni, mattinate insonnolite, ad aspettare che la giornata ci cascasse addosso. Proprio un’età opaca, impaziente, informe. (…) Eravamo tutte figure prese dallo stesso mazzo, accostate a casaccio da una mano tremolante in un solitario ostinato, che tanto non riusciva mai, deluso da qualche carta che non si trovava più, un dio di picche che chissà dove era andato a finire”.

Ma l’età giovanile, che pure il protagonista declina al passato, sembra non essersi mai conclusa: per Angelo e per tanti dei personaggi, il solitario continua a non riuscire, la mano è sempre tremolante, il “dio di picche” è ormai del tutto sparito. Forse Sandro Onofri ci sta raccontando anche di una generazione che è si ribellata alle regole del gioco, almeno parzialmente, senza però essere stata capace di sostituire il mazzo di carte, almeno di integrarlo con i pezzi mancanti. In questo amaro e bellissimo romanzo, in fondo il solitario riesce solo a chi accetta che il gioco sia truccato: insomma il mazzo ha una carta in meno e si può vincere solo barando.

In questo viaggio alla ricerca di se stesso, da New York a New York, Angelo accetta di incontrare gli altri sul terreno fragile, divertente, pericoloso, in qualche misura disperato, della menzogna. Imbastisce un altro se stesso, che peraltro non è molto diverso dall’originale, ma che serve a evitare responsabilità e infelicità.

Aggirare l’infelicità non vuol dire essere felici, nemmeno vivere davvero dentro la propria vita. Angelo racconta di un incontro, avvenuto qualche tempo prima a Parigi, con Robert Miller, il vecchio proprietario di una scalcagnata e straordinaria libreria (“mi dava l’idea di una specie di pensatoio, con tutto quell’odore di carta e di polvere che mi rilassava”), che dice di essere il fratello di Henry Miller. Di fronte alla sua capacità di continuare a vivere con passione e leggerezza, di aderire ai libri e al mondo che essi rappresentano, alla sua serenità, e anche all’astrazione di quel piccolo universo fuori dal tempo, Angelo si chiede se sia mai possibile “imparare a essere come quel vecchio”. La risposta dice molto della vita del protagonista: “Ma io credo di no. È un dono di natura che spetta a pochi eletti, che non hanno niente che li morde dentro, tutto li accarezza. Sono angeli per cui vivere è una festa. Io invece, mi dissi, sono Angelo e per me vivere è vivere, e basta”.

Sandro Onofri

La lingua utilizzata da Sandro Onofri, sempre densa e sul punto di rompere l’equilibrio della propria sottile e misurata struttura, imbastisce immagini straordinariamente nitide ma insieme rarefatte e di grande forza metaforica. Il protagonista si concentra spesso sui particolari, sui disegni minimi di una realtà che si presenta definita e vicinissima (“se ne andò, lasciando sul tavolo lo scontrino spezzettato e fradicio della scolatura dei bicchieri che inondava il piano di marmo” ad esempio), come se quello sguardo ravvicinato, quella messa a fuoco così precisa eppure, almeno all’apparenza, così superflua, possa rivelare qualche profonda, misteriosa verità.

Anche nei suoi contenuti più terribili e degradati, anzi proprio in questi casi ancora di più, la realtà può manifestare all’improvviso il suo aspetto più sorprendentemente umano e emotivo. Il protagonista si trova, come gli è già successo altre volte, in un tunnel pedonale della metropolitana di New York, che è una specie di budello putrido e pericoloso. Si accorge di essere rimasto solo, perché distratto dalle “note troppo acute di un’armonica”, suonata da “un ammasso di carne scura (…) un gigante nero accovacciato in un angolo tra il tanfo di piscio e le cicche lanciategli da piedi distratti”. Il piccolo strumento nelle mani di quell’uomo massiccio produce “accordi lunghi, quasi fosse un lamento o un clacson rimasto acceso nella quiete di una notte”. Angelo ha paura, in quel posto pericoloso che la gente chiamava “il buco”, rallenta, nella speranza che arrivi qualcuno, respira a pieni polmoni “il tanfo di muffa di quel posto di eterna notte”. Quando è ormai vicino a quella figura dolente, l’altro solleva il capo e lo guarda: “Aveva il volto di un pugile, sfigurato dalle botte, aveva gli occhi piccoli e gonfi, e il naso schiacciato. Suonava e mi guardava e piangeva”.

Onofri ci racconta di un’umanità sofferente, di donne e di uomini alla continua ricerca di se stessi e di una ragione che possa spiegare il viaggio. Il senso della circolarità del romanzo è proprio nella condizione, che appartiene a tante vite, di tornare al punto di partenza con le stesse domande e la stessa inadeguatezza di una volta, con la stessa fragile volontà di stupirsi e la consapevolezza che, in fondo, è tutto stupefacente, perché è tutto senza giustificazione.


La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini.

Facebooktwitterlinkedin