Giuliano Compagno
La morte di Berlusconi

Lutto continuo

Perché gli attuali governanti di questo tormentato Paese hanno seguito la strada sovietica e nordcoreana del lutto nazionale per la morte di un individuo che la storia d’Italia farà fatica a ricordare per qualche valore patriottico, identitario e condivisibile?

La decisione di proclamare lutto nazionale per la scomparsa di Silvio Berlusconi appare scioccante. Non è tale per ragioni politiche. Non ha alcuna importanza il fatto che Berlusconi abbia per molti anni guidato o abbia recentemente sostenuto il raggruppamento di centro destra, che da trent’anni precisi è sempre identico a sé: Forza Italia più Movimento sociale poi Alleanza Nazionale poi Fratelli d’Italia più Lega Nord poi Lega. Non è tale per un giudizio politico che rilevi del bene o del male che avrebbe compiuto da Silvio Berlusconi durante i suoi anni di premierato. Non è infine tale per questioni di carattere statistico, sociale o massmediologico.

Stamani, entrando in un bar ho cercato di stimolare il proprietario con una bonaria preoccupazione: “Domani state chiusi?” Ignoravo come la pensasse e cosa votasse il mio interlocutore. Viceversa. Mi ha risposto con tono serio: “No, chiusi no. Forse abbassiamo la serranda per un minuto.” Gli ho domandato se ritenesse la decisione del governo, quella di proclamare il lutto nazionale, sensata o meno. Ha annuito. Gliene ho chiesto il motivo ed egli ha specificato che il discorso non riguardava la politica ma il fatto che Berlusconi per ben trent’anni aveva condizionato, orientato e guidato il paese. Ritengo che questo sia più o meno il ragionamento popolare, e per quel che è non va schernito. Semmai va temuto per la sua inconsistenza.

Secondo la vulgata di numerosi cittadini italiani, Berlusconi ha rappresentato un pezzo di storia nazionale, e come tale va celebrato. A pensarci, a questa semplificazione non si è sottratta nemmeno la prima pagina de “la Repubblica”, intitolando così la notizia: “Fine di un’èra” La superficialità di quello che un tempo era un quotidiano di critica e di opinione è ormai qualcosa che supera ogni fantasia pessimistica: né fineèra sono apparsi termini appropriati ma non è il caso qui di approfondire una analisi sull’Affaire Berlusconi. È evidente peraltro che non ha né capo né coda la giustificazione popolare secondo cui una celebrazione fosse dovuta a chi più di altri abbia vagato tra l’immaginazione e l’illusione di un popolo. Non per questo, né per altro a cui desideriamo alludere, la decisione del presidente del consiglio risulta una bizzarria istituzionale. Almeno secondo la nostra storia. Almeno secondo la tradizione istituzionale. Almeno secondo la prassi invalsa in qualsiasi democrazia occidentale, secondo cui gli istituti simbolici vengono attivati in virtù di circostanze condivise. Non sono argomenti di poco conto. Nella storia d’Italia del dopoguerra a oggi, il lutto nazionale è stato proclamato per le morti di quattro papi, di due ex presidenti della Repubblica, poi per le vittime di un terremoto e recentemente per le vittime dell’alluvione di Romagna. Nel 2003 fu proclamato in memoria delle vittime dell’attentato di Nassiriya.

Sul sito della Presidenza del Consiglio dei Ministri è scritto quanto segue: «È dichiarato il lutto pubblico nazionale secondo le modalità e i contenuti indicati dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri». Vorrei conoscere i contenuti indicati dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri in merito alla decisione di proclamare una giornata di lutto nazionale per la morte di Silvio Berlusconi. E procedo per esclusione.

Se non è perché egli era Presidente della Repubblica in carica, qual sarebbe la ragione?

Se non è perché la sua figura è legata a un atto eroico compiuto in difesa della patria, di cittadini italiani inermi o di persone in gravi difficoltà, quale sarebbe la ragione?

Se non è perché Silvio Berlusconi, al momento di decedere, donava parte delle sue immense ricchezze in favore di popolazioni svantaggiate, quale sarebbe la ragione?

Se non è perché egli è morto in difesa delle istituzioni e nella lotta contro la malavita organizzata, quale sarebbe la ragione?

E se non è per il motivo secondo cui vi è l’intenzione di modificare una Conventio ad excludendum e d’ora in poi proclamare lutto nazionale per tutti coloro che sono stati presidenti del consiglio, ovvero Forlani, Amato, Dini, Prodi, D’Alema, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte, Draghi, Meloni… Quale sarebbe la ragione?

E se non è perché questo è un paese scellerato che non proclama lutto nazionale all’indomani delle stragi di Capaci e di via D’Amelio… se non è perché questo è un paese codardo, che non mostra alcun coraggio nel prendersi cura degli eroi veri e altresì ha la cattiva fede di incensare a tumulazione avvenuta una personalità, diciamo così, discutibile…

Se non è nemmeno per queste due ragioni, quali sono le vere ragioni?

La Francia, che è una nazione per la quale le istituzioni sono una cosa serissima, proclamò lutto nazionale per le morti di Charles De Gaulle, di Georges Pompidou, di Francois Mitterrand e di Valery Giscard d’Estaing: una figura storica, due presidenti che seppero unire il paese in un difficile periodo di transito verso la modernità, e infine il presidente che ebbe a rappresentare con forza la propria vocazione europeista. E c’è da aggiungere che, per i nostri cugini, il Presidente della Repubblica è sul serio una figura unitaria; qualora ciò sia in dubbio, si può star certi che il lutto nazionale non avrà luogo. In linea di massima, oltralpe proclamarlo significa celebrare una pausa durante la quale il paese intero ripensa a quel che è accaduto e alla Francia. Ciò vale più o meno per tutte le democrazie occidentali e non vale per certi esempi sconfortanti di idolatria nei confronti di satrapi, dittatori ed eredi dinastici inventati di sana pianta.

Parecchio tempo fa un’amica russa, nata in Unione Sovietica, mi raccontò un episodio. Aveva 12 anni e un mattino di novembre, che a San Pietroburgo pioveva a dirotto, la preside entrò in classe e annunciò con voce rotta dal pianto che Leonid Il’íč Bréznev era morto. La classe ebbe un’istintiva, intima reazione di gioia, non per motivi politici, figuriamoci, ma per il fatto che la scomparsa del Segretario Generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica avrebbe significato, per loro, tre giorni di vacanza; ma quelle 72 ore erano ufficialmente di lutto nazionale, perché era obbligatorio piangerlo, quel burocrate del peggior comunismo possibile. E allora le ragazzine e i ragazzini di quella classe si misero le mani tra i capelli, pronunciarono sillabe di sconforto, qualcuno addirittura riuscì a inumidire i suoi occhi. Non vedevano l’ora di uscire dalla scuola, di tornare a casa e di sorridere di gioia per quella festa improvvisa.

Ciò rimanda in sedicesimo alle scomposte scene di dolore dei sudditi nord-coreani in occasione della morte di Kim Jong-il. Si trattò di una manifestazione collettiva in cui la forzata simulazione di ogni singolo cittadino dava la misura della disperante condotta di vita di un popolo assoggettato fino all’abiezione. È pur vero che il termine lutto deriva dal latino lugere, ossia piangere, ma il manifestarlo insieme ci fa aderire all’espressione di una comunità sociale, culturale e politica. Ecco perché la decisione di proclamare il lutto nazionale per la scomparsa di Silvio Berlusconi appare anti-istituzionale del pari a quella che sarebbe stata per Alcide De Gasperi, per Enrico Berlinguer, per Sandro Pertini, e sto citando figure infinitamente più importanti e più significative di un sentimento identitario, nazionale e condiviso.

Non ci si era nemmeno pensato in quei tre casi, mentre per Silvio Berlusconi, che la storia d’Italia farà fatica a ricordare per qualche valore patriottico, identitario e condivisibile, non ci si è pensato mezza volta. Con una leggerezza impressionante si è dato all’Italia uno schiaffo che forse meritava e che sicuramente ci renderà, a dirla bene, buffi e risibili in ogni parte del mondo.

Lo si è fatto per le solite piccinerie legate all’opportunità politica, la medesima a cui il presidente della Repubblica Mattarella è dovuto sottostare per non risultare ostile a una parte di elettorato. E allora ci si riunisce a Duomo, si ostentano faccette contrite e si finge la postuma elevazione di una figura che è venuta a mancare lasciando dietro di sé, sgomenta, incredula e umanamente più povera, la parte ancora ragionevole del Paese, quella che ormai si chiama fuori dalla politichetta di sempre. Che Dio si distragga, almeno questo.

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