Daniela Matronola
A proposito di “Story Frame”

Libro Instagram

Attilio Del Giudice e il figlio Massimiliano hanno fatto un curioso esperimento: raccogliere in volume il loro dialogo social. Un gioco riuscito. Anche perché dimostra come la forma-libro è ancora necessaria. Anche ai tempi di Instagram

Ci sono dei libri che nascono fin da subito come esperimenti, però poi più ti ci inoltri e più hai le prove che possiedono una loro classicità e sono persino la prova recente dell’esistenza di un genere, rigorosamente ibrido, in cui è possibile osservare e interpretare il nostro tempo in ogni sua varietà.

Si tratta cioè di libri che prima ancora di essere anzi diventare tali sono stati attenta rilevazione dal vivo di circostanze situazioni e azioni autentiche, restituite in modo compiuto e persino rivelatorio.

È il caso di questo singolare volumetto, Story Frame, composto da Attilio e Massimiliano Del Giudice, e edito da TerreBlu lo scorso settembre 2022: salvo i ritratti dei due autori: il padre, (Attilio, scrittore, il narratore), e il figlio (Massimiliano, geologo, il fotografo), più una prefazione firmata dallo scrittore e l’ultimo frame che si riannoda col fiocco al primo a firma del fotografo, esso consiste in 50 scatti in bianco e nero, sempre con figure, e 50 bravi narrazioni in 300 parole, che non sono didascalie alle foto ma stimolate dalle foto e soprattutto dai caratteri in esse ritratti costruiscono delle mini trame a volte risolte anche in dialoghi sapidi o indiavolati.

Entrambi gli autori, paio dopo paio di fotografia e breve storia, hanno scommesso su un progettino d’opera che in un primo momento, nell’arco di due anni, è stato sottoposto all’attenzione di fruitori e lettori su Instagram, dal gennaio 2017 al gennaio 2019: il consenso del pubblico è stato oceanico. Segno che la formula, senza essere necessariamente superficiale, si è rivelata gradita perché leggera, rapida, intrigante, visibile, molteplice, coerente e coesiva (in involontario ossequio ai sei memos per il nuovo millennio stilati a suo tempo da Italo Calvino), ma anche molto appealing, aggettivo che di recente pare molto si porti. Per l’appunto il libro, il formato a stampa, è nato proprio sulla scorta del giusto incoraggiamento ricavato dal numero ingente di reazioni favorevoli ottenute sul noto social che ha premiato i due ingredienti essenziali dell’opus.

Da un lato la fotografia in bianco e nero di Massimiliano Del Giudice, di professione geologo, che attraverso i suoi ritratti in situazione è riuscito a racchiudere dei veri e propri nuclei narrativi, e ha colto negli attori di queste sue inquadrature cinematiche delle connessioni e corrispondenze oltre che delle sussistenze narrative che si sono pienamente sposate con le brevi narrazioni ideate dallo scrittore, Attilio Del Giudice, il quale, se permettete, merita un discorso a parte.

Attilio Del Giudice è autore con molte vocazioni fin dagli anni Sessanta: psicologo del lavoro, è stato esponente dell’avanguardia artistica che ha agito soprattutto in quel decennio e poi nei due decenni successivi. Una sua serigrafia-manifestino, Noùs (pr.: nùss, che in greco antico vuol dire animo, mente), esposto in mezzo a altre opere di altri artisti ne 1964 presso la prima Feltrinelli romana, a via del Babuino, fu notata da Pier Paolo Pasolini, che con molti altri frequentava allora quel centro di cultura e scambio tra i membri dell’estinta società artistica e letteraria romana (un patrimonio andato completamente perduto, e la gloriosa libreria chiusa ormai da anni).

Pasolini la utilizzò nelle scene della camera padronale nel film Teorema del 1968 come immagine laica al posto della immagine sacra sopra il letto della coppia matura del film, l’industriale, padrone pentito (Massimo Girotti) e sua moglie, da Penelope fedele a Molly ninfomane (Silvana Mangano). Oltre alla pittura e alle installazioni, Attilio Del Giudice è stato anche esponente del videomaking, una sorta di Andy Warhol italiano senza le stranezze del Warhol polacco-nuiorchese. Poi molto presto si è cimentato anche nella letteratura, pubblicato da minimumfax, Leconte, Gaffi e altri. Da anni ha intrapreso l’arte delle pittate elettroniche e pubblica racconti.

Ecco, in questo libro e ancor prima nella versione social del progetto StoryFrame, conferma la sua stoffa di narratore, anzi di scrittore, capace, anche sulla misura breve, peraltro fissa, di 300 parole, dettata dalla destinazione primitiva di questi racconti, di partire da una suggestione autonoma e sviluppare un nucleo narrativo che in genere dimostra controllo d’intreccio, abilità nel dialogo, arguzia e diversione – insomma tutto quanto si possa chiedere o aspettarsi da una tessitura di storie compiute, e indipendenti dopotutto, una tessitura degna di pregio letterario.

Cioè, benché in quarta di copertina, vestendo i panni della modestia e mettendo le mani avanti, si dica: “Non sono storie, racconti, ma frame, istantanee, immagini catturate da un occhio che osserva e a tratti registra, guidato dall’istinto o dalla volontà o dal caso: frammenti di vita che […] tuttavia ci riguardano e ci coinvolgono”, in realtà, sorprendentemente, i due autori alla pari, “chi scrive e chi fotografa, hanno la padronanza dei mezzi espressivi”, e offrono “un esempio di buona letteratura”.

Aggiungo infatti che sia i ritratti fotografici che i frammenti narrativi superano il pericolo di stretta provvisorietà che poteva ingenerarsi dal vincolo sperimentale dell’opera, e vincono sulla rigidità eventuale dettata dal dispositivo biunivoco e meccanico volontariamente prescelto, dialogando in modo ogni volta imprevedibile, e ricevendo gli uni dagli altri un carattere dinamico che a volte sa anche spiazzare.

Concludo con una considerazione più generale.

Questo libro è stato un bell’esperimento perché è la dimostrazione che parola e immagine, come si è detto, coniugandosi, infallibilmente intonano storie. Ma è anche la dimostrazione, “in carta e coste”, che se poi questa serie di storie e fotografie non si fossero aggregate in un volumetto, cioè in uno di questi prodigiosi parallelepipedi di spessore squadratura e fogli, le sue componenti, lasciate libere a fluttuare in rete, semplicemente sguainate nell’etere, avrebbero rischiato di finire disperse.

Siamo ancora gli autori della pagina e del racconto.

La forma-libro è ancora necessaria.

La forma-testo (tutto è testo, lo è la prosa o la poesia, lo è l’immagine, ferma o in moto) ancora ci parla e raccoglie ancora la nostra esclusiva attenzione, ancora ha su di noi un’irresistibile attrazione.

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