Roberta Passaghe
Su "Repertorio per mano sinistra"

L’uomo disintegrato

Il nuovo romanzo di Giulio Neri è il ritratto delle ossessioni di un pianista che si ritira in solitudine cercando di sfuggire la vita (senza riuscirci). Un libro che convince sia per l'uso della storia sia per l'uso della lingua

La spettacolarizzazione delle bassezze umane è una pratica che, se maneggiata con maestria, non smette mai di affascinare. In Repertorio per mano sinistra (Il Maestrale, 272 pagine, 20 euro) ci si immerge nelle manifestazioni migliori del grottesco, indiscusso protagonista del romanzo, per essere condotti nei meandri più libidinosi delle pulsioni individuali. Giulio Neri, l’autore, si adopera per portare chi legge in una dimensione dove, in un tripudio di vite che esistono in funzione del desiderio sessuale, un senso di colpa e un vittimismo esasperato si incrociano per guastare ogni possibile normalità.

Tristano Ruju, decaduto pianista cagliaritano, si è da qualche tempo ritirato e autoconfinato in una pensione salisburghese (ma il lettore scoprirà presto che da quelle parti c’è molto più movimento di quanto si potrebbe ritenere). A turbare l’apparente quiete arrivano i protagonisti del suo passato che, tra pura carnalità e affettività maniacale, lo costringono a ripensare il suo oggi. Il ruolo centrale del sesso e delle sue pratiche più spinte non deve sviare dai contenuti intimi del lavoro, che indaga sul ruolo delle relazioni e sui vari modi di stare al mondo. Se, da una parte, l’esasperazione di certi elementi caratteriali suscita ilarità, dall’altra il ricorso all’eccesso permette alla trama di parlarci da vicino (secondo quel principio per cui si inscena meglio una disfunzionalità se spacciata, magari sardonicamente, come distante da noi) e mostrarci realtà che, forse, così lontane da noi non sono: come vuole il grottesco, si ride, certo, ma con poco sollievo.

La riuscita dell’impresa però non è merito esclusivo dei contenuti, che pur sono orchestrati in maniera notevole, poiché affonda le sue radici in una padronanza rimarchevole del mezzo linguistico. Come nel precedente Carne, uscito due anni fa sempre per Il Maestrale, l’autore accosta con scorrevole naturalezza momenti colti a manifestazioni triviali creando, così, un perfetto attrito lessicale che facilita l’emergere delle contraddizioni interne ai personaggi o alle situazioni narrate (Tristano aspettò nel Maggiolino con il motore acceso, il riscaldamento a palla e Čajkovskij in radio; affaticarsi lì, sui trifogli, la calmava – nonostante i levrieri che abbaiavano e saltavano a molla; Ero solo. In balìa della scimmia, non lo nego). Una lingua che si sposa con l’oggetto della rappresentazione in un’operazione di mimesi ottimamente raggiunta, tant’è che in numerosi passi sembra essere, insieme al menzionato grottesco, la seconda protagonista del romanzo. Si apprezzano in particolare le calibrate inflessioni verso il basso, che smorzano i toni quando il testo si fa serioso, e le opposte impennate moraleggianti verso l’alto, che veicolano incredulità quando affibbiate a soggetti di dubbia etica (Greta, sienti a me: ’a cosa cchiù bella è perdonare. – Era così, Pebesce: buonista e sgrammaticato).

È doveroso menzionare la resa ingegnosa sia delle conversazioni tramite mezzo digitale sia delle notifiche che ne scaturiscono (come in Gli tornò in mente la notte della deflagrazione sotto i cento messaggi di Ludivine da Salisburgo. WhatsApp in tilt): da corrispondenze via mail a scambi su WhatsApp, non si ha mai l’impressione di artificiosità che spesso, invece, investe chi cerca di trasporre su carta la modernità. Grazie a un ulteriore piano della narrazione veicolato dalle note, poi, acquista maggiore forza l’ironia, che si presenta spesso a destabilizzare un andamento prevedibile: ma è puro artificio, tale prevedibilità, come dimostrano tra i tanti casi il sono impazzita, a Milano ho subito un TSO pronunciato da uno dei personaggi e subito smentito in nota dal narratore esterno con un perentorio non è vero, o ancora il se ne fregava di Jole e commentato in nota con un esagerazione introspettiva tipica di Ruju. Se questi elementi favoriscono dei riusciti cortocircuiti linguistici e tematici, non mancano passaggi più piani dove la tensione è retta a tratti dalla messa in mostra dei più beceri luoghi comuni di stampo maschilista (sotto il ventre liscio, infantile, spuntava un malloreddu; Di contro, elucubrava Greta, il fatto di non possederlo condannava qualsiasi donna a un’incompresa e incomprensibile isteria; Lì si sparava al cervo simbolo di innocenza. Qui, invece, si abbatteva una troia; Qualsiasi donna ci insegna che è una questione di testa) e a tratti da una retorica fintamente nobile (Il lirismo di quel brano conferiva al pasto una ritualità da sarcofagia: ciascuno, in fondo, si nutriva dei propri morti; una così spropositata dotazione offusca qualsiasi altro talento; il mandingo è come Achille, alla realtà basta un tallone scoperto).

Un racconto dai toni regressivi, dunque, che fa delle disintegrazioni morali il perno su cui ruotare, una tragedia del ridicolo architettata su un saldo equilibrio tra trama e stile che si mantiene intatto dall’inizio alla fine facendo emergere gli aspetti più reconditi dell’animo umano.


La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini.

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