Arturo Belluardo
Su “Non nella Enne non nella A ma nella Esse”

Romanzo rock

Il romanzo d'esordio di Mariana Branca è un viaggio folgorante nel mondo della musica e del ritmo (sulle tracce di Nicolas Jaar). Un'avventura di formazione che si trasforma nel catalogo della vita vissuta e da vivere

di quegli anni, quegli anni che eravamo amici, che stavamo sempre insieme, quegli anni che ci volevamo un bene pazzo, che ci amicavamo ogni giorno di nuovo come la prima volta, qualche ora ci inimicavamo, poi ci appaciavamo, ci abbracciavamo, oppure certe volte ci guardavamo soltanto. E un sacco di cose con gli occhi ci dicevamo e con le ciglia. La centrale elettrica di quegli anni era la musica elettronica che ascoltavamo, la musica elettronica che ballavamo, la musica elettronica che giocavamo, la musica elettronica che sognavamo.

Folgorante. È l’incipit del romanzo di esordio di Mariana Branca, Non nella Enne non nella A ma nella Esse, uscito per Wojtek Edizioni un anno fa e finalista della XXXIV edizione del Premio Calvino.

Folgorante, uno dei più begli incipit che abbia letto di recente. E leggendolo ad alta voce vengo travolto dal ritmo (saranno gli ottanta battiti del cuore – non uno di più – che troviamo nella bandella del libro?), un ritmo incessante che percorre tutto il romanzo, un torrente in piena che sposta argini, che rimbalza sui sinonimi e i contrari, che viaggia dentro gli etimi (ogni parola contiene una storia, che contiene una parola, che contiene una storia, che partorisce la Biblioteca di Babele), che si ingorga negli elenchi, come quello dei walkman Sony (che pezzi di letteratura straordinaria sono gli elenchi, le navi degli Achei dell’Iliade, il catalogo delle balene di Moby Dick…), che ingloba i materiali più disparati (dal foglietto pubblicitario della medicina dell’amore delle Amazzoni, la Puzanga al menu degli hamburger del Marcy Hotel), che.

Fiumi di parole (e qui la Branca aggiungerebbe il testo della canzone dei Jalisse) si sprigionano dalle dita sapienti e manipolatrici di questa esordiente, fiumi da cui ci si deve far trasportare senza porsi troppe domande, abbandonandosi al piacere della scrittura, alta e bassa, coltissima e irridente, o anche fiumi da contenere in tanti bacini di cemento, da esplorare uno per uno scoprendone segreti e tesori, quasi fossero caselle di un calendario dell’Avvento di centoquarantadue densissime pagine.

Cosa è quest’opera di Mariana Branca?

È, in apparenza, la biografia di un giovanissimo musicista Nicolàs Jaar, che ha innovato profondamente la musica elettronica, raccontata dal suo migliore amico, Andrès Rodriguez, un doppio immaginario, un amante inconfessato, uno specchio narrativo, un succubo del genio, un uroburo che riallaccia io narrato a io narrante nella esse finale dei loro nomi (non la N di Nicolàs, non la A di Andrès).

Ma è un romanzo? Mariana stessa, in un’intervista, lo definisce racconto, ed è, in effetti, un dipanarsi destrutturato seguendo percorsi più orali che narrativi, sicuramente più musicali: la pulsazione data al romanzo è senza dubbio alcuno quella della tastiera Roland Juno-106

l’impulso elettrico si faceva elettronico, poi organico, di organo e, ancora, d’organo ecclesiastico; pareva una chiesa rimbombante di organi e cornamuse, organi soprattutto, dalla keyboard Roland JUNO-106 del 1984 trasmigravamo all’organo a canne del barocco polifonico italiano, e viceversa; tastiere, tastiere elettroniche, tastiere elletroniche; pulsanti, pedali, ingranaggi, canne d’organo virtuali e virtù organiche della musica non da camera, ma musica da centrale; roboanti di variazione di fase, battiti, battute, battenti, pulsazione misurata in radianti. Angoli, angoli smussati, angolature uditive, rotonde, rotanti; rotelle, ruote foniche, fotoni e fluidi in vettori, rotori nella stanza a ruotare come quelle di un invisibile organo Hammond disposto lussurioso esattamente al centro.
(…)
Ma!

mentre l’Hammond suonava di suoni elettrici-elettromeccanici-elettrofonici (…),
la tastiera Roland JUNO-106 col suo amico Reason 1.0, loro suonavano di suoni elettronici, organici. Organolettici forse: potevamo sentire la musica con il naso, fiutare il profumo della perilinfa nel labirinto interno e osseo dell’orecchio, perilinfa mossa, febbricitante di danza. Potevamo assaggiare con la punta della lingua la porzione di frequenza, il dosaggio, l’abbinamento di due sinusoidi d’onda, il gusto degli herz alla sorgente. Potevamo guardare le vibrazioni rimbalzare sui muri digitali, cambiare colore e entrandoci in corpo, fosforeggiare. Ci trovavamo tinti di giallo accecante i capelli, i condotti uditivi; ci guardavamo l’un l’altro i timpani cantare magniloquenti, i minuscoli martello-incudine-staffa come passati all’evidenziatore, gialli, anche loro, in trasparenza, fluorescenti, fosforescenti, luminescenti, brillanti.

(continuerei all’infinito con gli stralci, fino a incollarlo qui, tutto il libro della Branca, scomposto e ricomposto secondo i miei beat, che anche a questo si presta).

E la Juno-106 è sicuramente la coprotagonista del libro, apriscatole aprimenti che scardina e travolge l’orizzonte musicale di Jaar e non solo: dal doveroso elenco finale in calce al testo, ritroviamo tra gli adepti della keyboard George Michael e Philip Glass, Fat Boy Slim e gli Style Council, Moby e i Cabaret Voltaire.

La storia a due di Nicolàs e Andrès diventa storia a tre e si snoda tra sale, acustica e compagni di viaggio/basso/batteria. È sicuramente un romanzo di formazione, è sicuramente un romanzo d’amore da spaccare il cuore, è un viaggio dentro il sangue più profondo della composizione, fatto di sudori e vapori, di piedi che ballano un ritmo infinito in sale quasi organiche, con muri che scottano, squassati dal suono.

Ancora un piccolo estratto, l’ultimo, giuro:

In quei giorni, lui sbatteva le palpebre e era un suono, le teneva chiuse e era un altro suono, spalancava quelle voragini acquose che erano i suoi occhi e era la composizione del caos, il caos composto e poi scomposto, smontato, svitato, sregolato dalle definizioni e quindi s-definito, eppure matematico, suono algebrico che descriveva la piena regola della caduta. Cominciò a comporre, a suonare, a incidere, a registrare, Con gli occhi aperti-chiusi-semichiusi-semiaperti-apertissimi-chiusi stretti. La tastiera e il computer e tutti gli strumenti musicali accatastati nella stanza dove le fotografie continuavano a starsene sparse sui tavoli e sul pavimento, e la vestaglia leggera, chiara di Evelyne appesa a un manichino e, sopra, intorno al collo del manichino bianco, la sciarpa modello Ande color mattone del signor Jaar.

Ma è anche un romanzo che apre finestre, che seziona e fa a fette, come quando ci racconta dell’architetto Gordon Matta-Clark, che tagliava i palazzi, simmetrici esatti precisi, o svela magie all’interno di cubi di Vantablack, come quelli di Alfredo Jaar, il padre di Nicolàs, le cui installazioni-performance al MoMa affatavano New York.

È la storia di un sogno, che si dipana tra le serafine (curioso tributo in forma di camicia ad Adriano Celentano) e le biciclette da corsa italiane, tra le corse in Twingo acquamarina e le playlist rimixate e scaraventate sulle piastrelle umide e stroboscopiche delle discoteche. Il sogno di Nicolàs Jaar, maestro officiante di danze ipnotiche, figlio spurio dei silenzi di John Cage. Lo stesso Nicolàs Jaar che, durante la pandemia, regala a Torino, San Salvario, ottocento dei suoi preziosi vinili.

E la musica di Jaar è il sogno, quasi l’ossessione, di Mariana Branca.  

Poliedrica, composita, occulta, mirabile, quest’opera-sogno-ossessione è sicuramente una Puzanga, un elisir d’amore dedicato a chi ama la scrittura, a chi cerca un antidoto alla nuova onda terrapiattista che attraversa la produzione narrativa italiana (ormai concepita tra i neon degli uffici commerciali e partorita ad usum Strega e Campiello su divani di similpelle da artiggianidellaqualità).

È un’opera, e forse non un romanzo, e come opera la si può leggere, ma come opera la si deve cantare, anche se non si conosce la musica, anche se si è stonati.

Le stonature fanno bene all’anima.


La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini


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