Danilo Maestosi
Alla Casa del Municipio Roma-Centro

La spina dell’arte

Dalle rose spinose al dolore per la negazione della propria identità di persona: una bella mostra dedicata all'artista iraniana Rasta Safari racconta come la pittura possa essere un gesto estremo di libertà

Come non tener conto del modo capriccioso e suggestivo con cui il caso mescola le carte delle analogie e muove le pedine sul cartellone degli eventi romani? Sì, perché mi capita al mattino di passare davanti al roseto comunale in piena fioritura e poi al pomeriggio di visitare una mostra, organizzata dall’associazione Religions for Peace, che chiama in passerella una pittrice iraniana e sventola nel titolo e nel manifesto il nome della rosa. Simbolo di solidarietà con le istanze di cambiamento che il regime di quel paese sta soffocando nel sangue. E bandiera delle lotte per l’emancipazione femminile in qualunque parte del mondo, contro il controllo politico del corpo delle donne e l’uso deviato della religione come strumento di oppressione.

Certo, là una festa di stagione che celebra l’incanto della natura, qua il richiamo dell’arte che insegue con un linguaggio più enigmatico il senso dell’invisibile, aprendo qualche breccia praticabile nel muro delle apparenze. Ma al centro una terra di mezzo dove abita lo stesso profumo imprendibile della bellezza, del piacere degli impulsi, l’eco perturbante della morte. Degli artifici delle paure e delle manipolazioni con cui tentiamo invano di alterarne il tragitto.

Che altro sono gli innesti di ceppi diversi con cui i coltivatori in guanti bianchi del roseto comunale competono e si sfidano nell’inventare fiori, più rari e mai visti? E quanto assomigliano all’ansia affannosa con cui i creativi di tutte le discipline della visione inseguono l’esclusiva di nuove forme d’immagine e di racconto?

Mi lascio alle spalle quel giardino davanti al Circo Massimo trascinandomi appresso il ricordo di un cespuglio di rose bianche che spuntava oltre la cancellata come un miraggio, i petali che sporgevano luminosi dalla corolla, ma sotto stavano già bruciando nelle macchie rugginose dell’appassire.

E forse è per questo che tra i diciotto quadri raccolti per questa mostra, allestita con incisiva sobrietà nel pianoterra della Casa del Municipio Roma-Centro al numero 53 di via Galilei, il colpo d’occhio mi inchioda subito davanti a due piccole tele, la misura di un foglio d’album, appese all’inizio e metà percorso. Tele che ritraggono due rose.

Una spina nella gola: così il titolo imposto alla mostra dalla curatrice Domenica Giaco e scandito dai versi molto intensi da una sua poesia che sfoglia i petali del suo tormentato percorso al femminile stringendosi al petto il fiore che l’ha punta e le spezza la voce, ma anche una ritrovata volontà di vivere, guarire e cantare. L’autrice, Rasta Safari, ha adattato quella sfida alla sua biografia di esule: ultratrentenne nata a Maschhad, da una famiglia di forte osservanza islamica, che ama e da cui si sente riamata, studi accademici a Teheran, ripresi e completati in Italia, prima in Sicilia poi a Roma, dove si è rifugiata da ormai quindici anni per seguire senza vincoli la sua vocazione per l’arte e dove sta continuando a scoprire il suo futuro di donna.

E per togliersi la spina di incertezza e dolore che ancora le si agita in gola, la confusione di chi ancora fatica a dirsi ha condensato nella apparente nudità iconografica di un fiore, tutti i passaggi di quel sofferto calvario: mettendo in posa davanti a se anche gli andirivieni della precarietà del mantenersi con altri lavori, nonostante una carriera già oltre il decollo, i freni di un istintivo pudore, gli inciampi di una lingua adottata.

Due rose declinate in due versioni diverse, stringendo all’essenziale il repertorio di seduzione della pittura, che proprio per questo raggiunge a mio avviso qui la sua punta più alta. Accomunate dal vapore polveroso e sbiadito degli sfondi, che trattengono lo scorrere del tempo come vecchie foto, relitti archeologici, solcati da segni e grumi di un alfabeto arcaico. In entrambi la pianta si erge come una torre, resa instabile da stelo e radici scoperte, e ostenta una chioma dischiusa, svela ed evoca senza nulla di osceno la fenditura di una vulva. Ma il primo fiore è avvolto in una nube d’inchiostro, lo strascico di un processo di combustione, come se il segreto di quella spina in gola fosse racchiuso nella punizione vendicativa di un fulmine, di un rogo su cui immolare una strega.

Nel secondo invece spicca una macchia di rosso brunito, accesa da una corona di colori giallastri, una ferita che si sta trasformando in cicatrice, vita e dolore che ancora pulsano lì dentro.

L’effetto è dilatato dall’increspatura della superficie, che moltiplica le prospettive dello spazio e la precarietà della visione. La curatrice l’interpreta come l’impronta che un corpo morto trasuda su un lenzuolo funebre. L’autrice, invece, spiega il ricorso a questa marcata stropicciatura della superficie, che caratterizza tutti i lavori esposti, con l’intenzione di trascinare nelle opere gli stessi brividi, le stesse vibrazioni che prova quando in preda a una forte emozione si accarezza, sente tremare la pelle. Più un presagio di pericolo angoscioso che un referto di morte già avvenuta. A toccarla e spingerla alla confessione sembra infatti più che il vuoto improvviso dell’inanimato, più che il ripetersi del dolore che certo ha provato direttamente o incalzata al telefono e in tv dal tragico spettacolo di lutti che stanno insanguinando l’Iran in rivolta. A inquietarla è l’insidia della perdita di senso, lo strappo dell’appassimento delle memorie, della Storia e dei valori su cui ha fondato le sue radici, le sue attese, le proiezioni del suo immaginario, l’amore profondo che prova per la sua terra d’origine.

Lo dimostra in modo eloquente il quadro che completa il trittico dedicato ai fiori più emblematici di questo maggio: Nuda sotto la rosa. Sotto gli steli ora appare un corpo di fanciulla senza veli. Una bella addormentata, gli occhi chiusi su un mondo da favola nel quale Rasta Safari resuscita con orgoglio d’appartenenza la tradizione persiana della miniatura, sopravvissuta ai tabu dell’Islam, e un modello ideale di donna-regina, più simile alla Sherazade delle Mille e una notte che alle aspre guerriere sempre in armi del femminismo d’Occidente.

Ma a turbare quel clima di sogno, inquinare la speranza di poter prima a poi rientrare nel paese da cui è stata costretta a fuggire, le torna subito a sanguinare la ferita mai cicatrizzata di un ricordo dell’arresto subito quando aveva 23 anni: era uscita di casa con il velo scomposto che copriva malamente i capelli e una gonna troppo corta per nascondere le ginocchia, la fermò per condotta indecente un poliziotto che la trascinò in tribunale dove fu trattenuta per ore, rilasciata dopo il giudizio di biasimo e un benevolo verdetto di grazia di un mullah accomodante. Ben ti sta, le rinfacciò il fratello, il custode più implacabile della sua adolescenza dimezzata dai divieti e dai sensi di colpa. Ad altre parenti ed amiche della sua età, ad altre donne scese in piazza in questi ultimi mesi è toccata una sorte peggiore. La cella, lo stupro in prigione, percosse a morte. Un rigurgito di paura che torna ad assalirla anche qui, non le impedisce di manifestare in Italia schierandosi apertamente con i giovani in rivolta, il rischio forte di essere identificata e schedata per poi pagarne le conseguenze se rientra in patria. Un assillo che ha rubato un pezzo di vita. A lei, al suo corpo. Non la morte, ma qualcosa che le assomiglia.

Un tormento segreto che però ha acceso di verità la sua arte. E impresso un marchio inconfondibile di assoluta originalità ai suoi quadri. Una tecnica che insegue con grande libertà di sconfinamenti astratti le emozioni del colore e dei segni, ma resta ancorata al movimento e alla forza evocativa della figura umana. Per anni ha dipinto l’inferno e le mutazioni dei corpi. Figure che precipitano o galleggiano nel vuoto, membra che si accavallano. Volti in penombra di divinità femminili arcaiche della Mesopotamia, idoli di saggezza e governi matriarcali, eroi ed eroine della poesia e narrativa persiana che accolgono, abbracciano e pungolano l’umanità sofferente. Un affollarsi di corpi vestiti solo di colori e di graffi ma mai davvero nudi: in Accademia a Teheran raffigurare il nudo e i caratteri del sesso era vietato. Solo ora Rasta Safari ha cominciato a provarci, prima in forma simbolica servendosi della sensualità della rosa, poi ritraendo per la prima volta l’increspatura di un pube tra le lunghe gambe di una dea donna in posa. Ma le ha negato la testa e aggiunto lì a lato una corona di spine, a mettere in scena anche le sue paure, i suoi dubbi.

Comunque un gesto di libertà piantato come un seme che darà i suoi frutti. Ma in questa mostra ha partorito lavori più sfocati, corpi e colori, paesaggi, citazioni da miniatura, che scivolano verso il sogno e le sue alchimie come a cercarvi rifugio. La pittura e il talento per la pittura non concedono tregua.

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