Nicola Bottiglieri
Sulle tracce di De Agostini/4

I pinguini di Magellano

Il viaggio in Sudamerica, alla ricerca dei luoghi del geografo salesiano Alberto Maria De Agostini, prosegue verso la Terra del Fuoco. Un luogo mitico dove tutto è dominato dal vento e dai pinguini

Quando venni la prima volta a Punta Arenas, circa dieci anni fa, andai al Seno Otawey a vedere i “Pinguini di Magellano”, una razza molto più piccola del “Pinguino Rey” o “Pinguino Imperiale” che si trova in Antartide. Era d’estate, quindi il sole tramontava verso le undici di sera, ebbi tutto il tempo di osservarli. Erano di colore bianco e nero, ma a strisce e non davano confidenza a nessuno. I piccoli uccelli/pesci facevano la spola fra il mare e il loro nido costruito nella sabbia, dignitosi e irreprensibili. Andavano avanti ed indietro, muovendo in modo frenetico i piccoli piedi ed aprendo le ali appena ricoperte da un fitto piumaggio. La pinguinera proponeva percorsi guidati, passerelle e sentieri segnati da corde, in modo da non intralciare il lavoro degli “uccelli bambino”. Mi muovevo in silenzio, sulla punta dei piedi, cercando di non ostacolare in alcun modo queste strane creature che furono descritte per la prima volta da Antonio Pigafetta nel 1520, quando li vide in Patagonia: “Poi seguendo el medesimo cammino verso el polo Antartico, accosto da terra, venissemo a dare in due isole piene di occati e lupi marini. Veramente non se poría narrare il gran numero de questi occati. In una ora cargassimo le cinque navi. Questi occati sono negri e hanno tutte le penne ad uno modo, così nel corpo come nelle ali: non volano e vivono de pesce”

Nostalgico di quel ricordo, avevo deciso di ritornare a vederli, ma alla Navimag, l’Agenzia che organizza i viaggi, mi dicono che da qualche anno i pinguini non sono più tornati nel Seno Otawey e quindi la pinguinera è stata chiusa. Chiedo della Isla Margarita, a qualche ora di navigazione da Punta Arenas, ma mi dicono che la navigazione viene chiusa il 30 marzo, quando inizia l’autunno, perché i pinguini vanno più a nord verso il Brasile, per non affrontare l’inverno. Di fronte al mio scoramento, la ragazza mi chiede se voglio vedere il “Pinguino Rey” alla Bahia Inutil, dove vi è una colonia numerosa. Accetto con entusiasmo la proposta, senza badare al fatto che per arrivarci ci vogliono due ore di navigazione e tre ore di macchina. In totale si parte alle sette del mattino e si ritorna alle nove di sera. La sosta nella pinguinera sarà limitata a 20 persone per volta, per la durata di un’ora.

“Hanno imparato la lezione – mi dico mentre esco dall’agenzia –. Qui non è come al Seno Otawey. I pinguini si sentivano sopraffatti dalla presenza umana e sono andati via”.

Ore 7.30 arriva la navetta che ci porta al molo Tres Puetes, alle 9.30 la barcaza Patagon, inizia la traversata dello stretto di Magellano. Arrivo a Porvenir alle 11.30. Veniamo catapultati nel ristorante Nacho, dove per 15.mila pesos si mangia un piatto caldo oppure una “milanesa” grande quanto la regione Lombaardia… Io prendo una sopa, fatta con ortaggi, un pezzo di carne e mezza pannocchia di granturco. Giro per il paese, facendo foto al cartello di benvenuto.

Porvenir ha 6 mila abitanti ed è la porta d’entrata dell’Isola Grande della Terra del Fuoco. Fu fondata nel 1894, da un esploratore che si faceva chiamare George Porter arrivato qui inseguendo il miraggio dell’oro. Ma l’oro finì presto, perché di carattere alluvionale, trasportato dai fiumi, non presente invece nei filoni delle montagne. All’oro giallo fece seguito l’oro bianco, la lana delle pecore che cambiarono radicalmente la storia e la geografia della Terra del Fuoco.

L’allevamento delle pecore ebbe carattere apocalittico. Si svolgeva intorno all’estancia che poteva mantenere fino a 300 operai, come successe con la Estancia Caleta Josefina la prima ad essere impiantata nella Bahia Inutil. Venne creata La Sociedad Explotadora de Tierra del Fuego, presieduta da Mauricio Braun che ricevette dal governo un milione di ettari sul quale fare pascolare le centinaia di migliaia di pecore. L’architetto Cosme Spiro si incaricò della costruzione degli ambienti e la gestione amministrativa fu affidata ad Alexander Cameron, allevatore di pecore proveniente dalla Nuova Zelanda. La proprietà era così vasta che fu divisa in sezioni: San Sebastián, China Creek, y Cameron.

Questi nomi sono incisi nella geografia del territorio con lettere di sangue, perché intorno a questa attività economica si consumò, senza nessuna pietà, la strage degli indios. Che furono decimati con il fucile, il veleno, la tubercolosi ed il vaiolo quando non ridotti in schiavitù. Gli onas o selk nam erano un popolo di cacciatori nomadi che vivevano nell’isola della Terra del Fuoco, cacciando il guanaco e raccogliendo i prodotti della steppa. Ogni gruppo occupava un territorio chiaramente delimitato e chiamava se stesso con il nome del territorio dove cacciava. Quando essi videro l’invasione delle pecore contrastarono l’arrivo dei nuovi animali, di conseguenza contro di essi fu scatenata una guerra feroce. In pochi decenni scomparvero, senza lasciare tracce della loro permanenza, anzi possiamo dire che l’unico monumento che essi costruirono fu la loro stessa esistenza per 10mila anni in un territorio isolato ed ostile. La pianura sconfinata senza rilievi di nessun tipo che ho davanti agli occhi è equivalente alla loro storia millenaria senza memoria.

In autobus percorriamo la steppa senza alberi, piatta ed uniforme come la volta del cielo. Cambia solo il colore, giallastro la terra, celeste il cielo, ma di notte con il chiarore della luna, il colore giallastro si spande fra gli uomini e le stelle.

In questo paesaggio desolato domina il vento, il vero padrone di questo enorme labirinto del nulla. Nella monotonia del paesaggio, la fantasia si pone domande impossibili. Cosa è il vento? Azzardo una definizione, elaborata durante gli scossoni del viaggio: “Il vento nella Terra del Fuoco è un’onda incessante e fredda, un fiume perennemente senz’acqua ma con la violenza dei flutti più capricciosi”. La definizione fa scaturire un’altra domanda: “Se il vento è un’acqua immateriale e velocissima, qual è la sorgente del vento?”. La risposta non può che essere questa: “Le sorgenti dei venti sono misteriose, ma egli corre a buttarsi nel suo mare che altro non è che il cielo!”.

Quando arriviamo alla pinguinera veniamo avvertiti di non fumare, non mangiare, non gridare, di comportarci come se non esistessimo. 10mila pesos il biglietto d’ingresso. Un sentiero guidato ci porta sull’orlo di un canale, oltre il quale a circa 200 metri ci sono un centinaio di esemplari del pinguino rey. La guida a bassa voce dice che un pinguino può vivere 20 anni, pesa circa 40 chili ed è alto fra 90 cm ed il metro. Se a terra ha una buffa andatura, in mare nuota a una velocità di 40 km/h, fino a 200 metri e restando in apnea per 20 minuti.

Cosa facciano qui questi animali che di solito vivono al Polo Sud è un mistero. La pinguinera fu adibita al turismo 12 anni fa – mi dice la fondatrice della piccola riserva – e da allora riceve 20 mila persone all’anno. Non di più per non alterare il precario equilibrio della natura. Se i pinguini si sentono minacciati, vanno via e finisce la fonte di reddito per un bel gruppo di persone che lavorano intorno ad essi.

Con il binocolo osservo i loro movimenti misteriosi, il becco aguzzo, il collo di colore giallo che si gira in tutte le direzioni, il colore bianco acceso degli adulti, marrone per i più giovani, lo strofinio del becco fra le piume, il loro stare gli uni vicino agli altri per proteggersi dal freddo. Alcuni vanno verso il mare, altri escono dall’acqua zigrinata dal vento e si avviano verso i compagni. Forse non ci vedono, forse sanno che siamo qui e fanno finta di non vederci…sono animali misteriosi, usciti da una natura che noi europei poco conosciamo.

Finita la visita, rifacciamo la strada dell’andata, ma facendo una deviazione verso la primera angostura, la parte più stretta fra il continente e l’isola Terra del Fuoco. Qui, Magellano nel 1521 vide i fuochi degli indios che segnalavano la presenza di barche mostruose spinte dal vento, qui i marinai temettero di incagliare le navi, senza poter tornare indietro e morire abbandonati alla fine del mondo, qui morì il medioevo e nacque l’età moderna. C’è tanta storia europea alla fine del mondo, che non finisce mai di stupire, una storia che solo facendo ragionare la fantasia si riesce a comprendere.

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