Leopoldo Carlesimo
Un racconto africano

Notte all’impianto

«Fu su quella prima diga, a Shiroro, che imparò il mestiere. Rimase confinato laggiù, in quel cul-de-sac d’Africa, per sei anni, senza mai uscirne. Il Friuli, intanto, rifioriva. Da terra di braccianti, dopo la ricostruzione mutava pelle, s’arricchiva, si trasformava in uno dei poli industriali del nord-est»

A Garafiri, moyenne Guinée, Torlin era l’impiantista del cantiere. L’impianto di una diga è una macchina primitiva e complessa, un intrico di nastri trasportatori che si diramano in ogni direzione, collegando tra loro frantoi di vari tipi e dimensioni, da quelli a mascelle della stazione primaria, capaci di macinare blocchi di roccia da un metro cubo, ai mulini della terziaria, che rifiniscono sabbie e ghiaietti. Ha un po’ l’aspetto di uno di quei curiosi assemblaggi meccanici ottocenteschi, da albori dell’era industriale, in cui attraverso selve di tralicci pulegge ruote e ingranaggi, s’ottiene alla fine della catena un oggetto semplice: un sassolino.  

Ora, accade che, per qualche strano fenomeno di osmosi, come i frantoi delle dighe sono macchine primitive e complesse nel senso appena illustrato, così anche le persone che se ne occupano – cioè gli impiantisti – siano uomini primitivi e complessi.

Torlin era originario di Gemona, Friuli. La sera del 6 maggio del ’76, quando l’orco – l’orcolat, come i friulani chiamarono il terremoto – toccò il suo paese, aveva vent’anni. Saltò giù da una finestra del secondo piano mentre la casa si sbriciolava e si salvò. Ma il padre, la madre e la sorella rimasero presi nel crollo. Mentre scavava a mani nude le macerie, s’accorse che aveva nell’avambraccio una scheggia di vetro lunga un palmo che penetrava a fondo nella carne, chissà quando vi s’era conficcata, probabilmente al momento del salto. Frammento tangibile dell’artiglio cui era appena sfuggito. Tolse la scheggia, bendò la ferita con la manica strappata e continuò a scavare.

Della famiglia, non se ne salvò nessuno. Prima di mezzanotte tirò fuori i tre corpi e li stese su mucchi di pietre. Non si soffermò a vegliarli, non ce la fece, continuò a scavare le macerie delle case accanto. Nei giorni che seguirono andò avanti a scavare, notte e giorno, in paese e dintorni. Nei mesi e negli anni che seguirono lavorò nei cantieri della ricostruzione, a ritmi da forzato, sostenuto da quel senso d’emergenza che persisteva nel luogo, e finché l’intensità del lavoro bastò a stordirlo, tenne botta. Ma quando anche l’opera di ricostruzione rallentò e la normalità riprese piede, Torlin non seppe più che fare per combattere la sciagura che aveva dentro. Un’impresa di Milano che conduceva in Friuli alcuni cantieri del dopo-terremoto – ma altri ne aveva in Africa – gli offrì un posto laggiù. Così partì per la sua prima diga africana: Shiroro, Nigeria.

La cicatrice del vetro me la mostrò in Guinea, a Garafiri, una sera ch’eravamo quasi amici ed entrambi in vena di confidenze, complice l’alcol, nel club del cantiere. Una striatura bianca, gonfia, ramificata a stella alle estremità, nitida come un marchio sulla pelle abbronzata. A quell’epoca s’era ormai specializzato nel ruolo d’impiantista, uno dei migliori; e come tutti gli impiantisti a fine turno, la sera, si dava al bere, seguito naturale dello stordimento che cercava nel lavoro, la tirava così fino alle soglie del sonno. Sarà, poi, che tenere a bada tutto quell’intrico di nastri, vagli e frantoi fa fatica, mette a dura prova testa e nervi di un uomo solo. Sarà anche che in tutti i cantieri che ho conosciuto l’impianto di frantumazione è stato sempre, senza eccezioni, una fonte inesauribile d’urgenze e preoccupazioni. Fatto sta che gl’impiantisti per far quel mestiere hanno bisogno d’aiuto e in genere lo chiedono alla bottiglia. E se non beve non è un buon impiantista, almeno io non ne ho mai incontrato uno.

Quindi la sera del doppio incidente Torlin aveva bevuto, chiaro, non c’erano sere in cui non lo faceva. Ma l’alcol non c’entra con le ragioni di questa storia, non ha causato quel ch’è successo. E poi Torlin l’alcol lo reggeva, aveva ormai quarant’anni e una certa esperienza d’impianti e di bottiglie, non era un coglioncello di primo pelo, sapeva come portarla al livello giusto e poi tenercela, perché duri. Perciò se qualcuno venisse a dirmi che gli capitò quel che gli capitò perché era ubriaco, risponderei che è una sporca bugia; e una sciocchezza, un luogo comune, la più facile delle risposte.

Quel martedì il frantoio di Garafiri aveva fatto più bizze del solito. Dopo aver lavorato a singhiozzo per tutto il giorno, fermando a macchia di leopardo, ora qui ora là, un mulino perché bisognava cambiare le corazze, un idrocono perché s’era inchiodato il cuscinetto, un nastro perché una pietra aveva tagliato il tappeto, un vaglio perché il peso dei sassi aveva sfondato le reti, all’inizio del turno di notte, fatta l’ordinaria manutenzione, liberate le macchine dalla zavorra di polvere e detriti accumulatasi nel corso della giornata, ingrassati i giunti, soffiati i filtri, l’impianto fu pronto a ripartire verso le otto di sera.

La roccia arrivava dalla cava con regolarità. Il frantoio lavorava a bocca piena, dal nastro del primario usciva un bel getto continuo di frantumato misto. Tutto l’arnese pareva ben calibrato e quando questo accade – quando raramente accadeva a Garafiri – lo senti dal rumore: le varie componenti suonano come una banda musicale che finalmente prende il ritmo; e alla fine sputano a cumulo, dai cinque nastri d’uscita, cinque bei fiotti di sassolini puliti, per comporre i filtri e i dreni della diga e le miscele di pietra che formano i calcestruzzi. Che l’impianto funzionasse così, a Garafiri non capitava spesso, perché la roccia lì era tremenda: una dolerite dura quanto il ferro che doveva macinarla, che già in cava si mangiava come la mola le aste di perforazione e quando poi, esplosa la volata, i massi di smarino finivano a frantoio, massacrava corazze, ganasce e barre, tagliava nastri, perforava i vagli. I fermi di produzione erano continui e a Torlin e alla sua ciurma toccava faticare il doppio del normale per ottenere dal frantoio dodici-tredici ore di produzione sulle ventiquattro coperte dai turni. Un lavoro duro. Perciò quando vedeva partir bene l’impianto, con le diverse macchine accordate a tono che facevano ognuna la parte sua, se ne stava per un pezzo davanti ai cumuli, Torlin, a sentirle suonare. Si prendeva quel po’ di soddisfazione che il suo avaro mestiere gli concedeva in cambio del mazzo che si faceva ogni santo giorno.

Fu su quella prima diga, a Shiroro, che imparò il mestiere. Rimase confinato laggiù, in quel cul-de-sac d’Africa, per sei anni, senza mai uscirne. Il Friuli, intanto, rifioriva. Da terra di braccianti, dopo la ricostruzione mutava pelle, s’arricchiva, si trasformava in uno dei poli industriali del nord-est. Lui per tutto quel tempo non ci rimise piede. Famiglia non ne aveva più, e non se ne formò una nuova. Ai parenti e amici che gli restavano, a Gemona, fece credere che da laggiù, dall’Africa, fosse impossibile telefonare. Non era mica vero, tutti in cantiere trovavano modo di farlo. C’erano posti telefonici precari a distanze non impossibili dai luoghi delle dighe, raggiungibili con due o tre ore di guida nella brousse, dotati di linee pericolanti che cadevano ogni minuto. Gli espatriati la domenica andavano tutti lì, a urlare nel microfono per avere la meglio sulle scariche. Finché poi, verso la fine degli anni Ottanta, cominciarono a circolare nei cantieri i ponti radio skanti, quelli allora in uso sulle navi, che consentivano di allacciarsi alle reti telefoniche europee. E allora telefonare regolarmente a casa non fu più così difficile.

Ma ai familiari e amici che gli restavano a Gemona, Torlin nascose l’esistenza di queste cose. Lasciò creder loro che non ci fosse modo di chiamare, s’eclissò, scomparve. Non era uomo di carta e penna, lettere non ne scriveva, quindi per anni non fece sapere più nulla di sé. Un taglio netto, una cesura verso il mondo di prima, di cui evidentemente sentiva il bisogno. La tenne in piedi per sei anni, quella balla, finché un bel giorno, così, d’impulso, si decise a tornare.

In una di quelle serate alcoliche che ci accomunarono, a Garafiri, gli chiesi perché avesse cambiato idea. Ci pensò un po’ su e non volle o non seppe rispondermi; piuttosto sviò, bofonchiò banalità vaghe, camuffandole nell’ottenebramento della sbronza. Quindi, non avendo ottenuto risposte da lui, mi sento autorizzato a ipotizzare la mia. Quel che penso è che da un giorno all’altro Torlin sentì che stava perdendo le radici, che se non avesse ripreso in fretta contatto con la sua terra, tra un po’ non ne avrebbe più avuta una. Allora soppesò attentamente quel legame, per quel che valeva, e sia pur col minimo coinvolgimento emotivo si decise a tornare. Stipulò col Friuli una sorta di freddo armistizio, un patto al ribasso e di lì in poi seguitò a tornarci un paio di volte l’anno, per brevi periodi di ferie. Ricompariva all’improvviso, all’insaputa di tutti, e quando si materializzava per le vie di Gemona e lo si vedeva fare la spesa al supermercato o bersi un’ombra al bar, la gente ne parlava, era una specie di personaggio un po’ lunatico. Ma di questo lui non si curava.

Sulle macerie della casa vecchia ne costruì una nuova. Però non bella come quelle che sorsero lì attorno, quelle che un po’ tutti si costruirono nel dopo-terremoto, più accoglienti e comode delle crollate. Quella che si fece Torlin era brutta più della prima e lui ci mise molto più tempo degli altri a tirarla su. Non gli importava neanche di questo. Dei vecchi tempi recuperò una cosa sola: le scalate in montagna. Da ragazzo era stato un buon rocciatore, socio di un club alpino. E negli intervalli che passava in Italia si dedicava a quelle escursioni, diceva che arrampicarsi lo disintossicava.

Quella sera, dopo aver fatto partire il turno di notte, Torlin si fece una doccia per sciacquar via l’impiastro d’olii d’ingrassaggio e polvere di roccia che tutti gli impiantisti portano addosso come una seconda pelle a fine giornata, e s’affacciò al club del cantiere. C’era un solo tavolo occupato, da Brusatti, l’idraulico capo della diga, uno che a Torlin non andava a genio. Non che avessero questioni tra loro, ma Brusatti era uno che parla molto e a Torlin chi chiacchiera non piace. Quindi non lo raggiunse al tavolo, sedette al banco da solo e chiamò la prima. Partiva a birra, poi saliva di grado. La birra gli lavava via dalla gola la polvere di frantoio e la preparava al seguito. Ma, buttati giù i primi sorsi, Brusatti gli s’avvicinò e si sedette sullo strapuntino accanto, bere da solo al tavolo l’intristiva. “Ha da far parole,” si disse Torlin, e difatti quello cominciò a farne.

Gli parlò della nuova ragazzetta che s’era trovato al di là del fiume. Era uno che si vantava delle sue imprese, Brusatti, sia quelle venatorie che quelle erotiche: dar la caccia alla fauna selvatica nei dintorni del cantiere – gazzelle, facoceri, pernici, faraone – e alle ragazzine appena adolescenti che trovava nei villaggi. Nella fattispecie, il villaggio in questione era quello di Bolom, sulla riva destra del fiume, a un passo dall’impianto. Era venuto a cacciargli quasi dentro casa.

“Sta’ a sentire, ha una pelle che pare seta,” diceva Brusatti. “Un corpicino delicato come un bocciolo, una testolina ebano e avorio…”

“Quanti ne ha, questa?” fece Torlin.

“Boh, pochi. Neanche l’età per decidere da sola. Ha bisogno del permesso dei suoi per lasciare il villaggio.”

“Perché vuoi portartela al campo, no?”

“Eh, è faticoso andare tutte le volte fino a Bolom, passare la notte in una capanna… Non ho più l’età per queste cose.” Andava per i sessanta, Brusatti, un tipo alto, azzimato, segaligno. Torlin gli fece certe domande sulla ragazzina, ma con un tono irridente, offensivo, che a Brusatti gli fece saltare la mosca al naso, sicché a un certo punto litigarono. Sarebbero venuti alle mani, se non fosse intervenuto Abu, il pancione del bar, a dire ch’era ormai passata mezzanotte e doveva proprio chiudere. Li buttò fuori tutt’e due e questo chiuse la rissa, venne meno il ring dove consumarla. S’augurarono un’astiosa buonanotte e ciascuno se ne tornò in baracca per i fatti suoi.

Litigioso senza ragione, fosco, manesco, aggressivo. Questo pensava la gente di Torlin. “Lascialo perdere, quello, sta’ alla larga”, dicevano ai nuovi. Su altre questioni, però, era un pezzo di pane. Nel giro dei cantieri africani era noto per certe cose che faceva, che gli altri non capivano e per questo, alle sue spalle, ne ridevano. Gli stipendi allora, giù in Africa, erano alti e lui era un impiantista apprezzato, lo pagavano bene. Ma tutti quei soldi a Torlin non servivano, non sapeva che farsene. Teneva per sé il necessario – che era poco, perché era frugale – e usava il resto per far cose laggiù, nel Paese in cui di volta in volta la Compagnia lo mandava a lavorare. Scavare pozzi nei villaggi, costruire piccoli dispensari medici, roba così. Semplici costruzioni in paglia e argilla dove tenere un po’ di farmaci contro la malaria che il medico del cantiere – il dottor Keita – addestrava qualche sage femme a somministrare. Non si capacitava del fatto che al giorno d’oggi, nei villaggi isolati, ne morissero ancora tanti di una malattia ch’è così facile curare. Quanto ai pozzi, aiutavano le piccole comunità rurali sparse per la boscaglia ad affrontare i cicli periodici di siccità: lo faceva infuriare che bastassero due o tre stagioni di piogge scarse per vedere animali e uomini cominciare a crepare per mancanza di una risorsa elementare come l’acqua. Nei centri maggiori – a Conakry, a Mamou, a Kankan – sovvenzionava certi consultori contro le mutilazioni genitali femminili e i matrimoni combinati in età infantile, cose che, entrambe, lo mandavano in bestia. Nel suo piccolo, e quasi suo malgrado, era un benefattore.

Per altri versi, però, era un tipaccio. Uno vendicativo, rancoroso, brutale, collerico. Le opere di bene non le faceva con buon cuore, ma per rabbia. All’impianto era molto duro coi suoi neri, li maltrattava da mane a sera e li massacrava di lavoro, con certi modi bruschi che non si sarebbe permesso nei confronti di un bianco. Non nutriva in loro nessuna fiducia e gli ho sentito pronunciare, da sobrio, frasi sprezzanti che basterebbero a farne un razzista. Salvo poi capire, a conoscerlo meglio, che non ne faceva una questione di razza. Ce l’aveva con tutti, bianchi e neri indistintamente, era un equanime misantropo. E io credo che queste cose contraddittorie – la generosità e la noncuranza per il denaro; la rabbia che ogni due per tre gli montava dentro e l’intermittente misantropia – sgorgassero per certi versi da una fonte comune: l’incontro con l’orco, quella notte a Gemona. Il resto dell’esistenza, dopo, l’attraversò un po’ come un sopravvissuto, o un sonnambulo, con una scala di valori tutta sua. E siccome, per quanto rozzo, era uomo di un certo spessore, quella scala contava molto, determinava in modo cogente il suo agire e il suo pensare. Non una scala condivisa, apparteneva soltanto a lui e per questo gli altri lo consideravano un po’ tocco. E per darsi una spiegazione di certe cose che faceva, molti ricorrevano alla voce che beveva, scuotevano la testa e ripetevano, saputi, che era un ubriacone, un alcolizzato. Ma io non ho mai visto Torlin dare di matto per via dell’alcol. Era quand’era sobrio, che era strano.

Dopo la mezza lite con Brusatti, si fece un’ora di sonno scarsa, prima che venisse a svegliarlo uno dei suoi neri. Dormiva sodo e ce ne mise per sentire quello che picchiava alla porta e lo chiamava con una voce agitata e impaziente che avrebbe dovuto metterlo subito in allarme. Andò ad aprire e si trovò davanti Amarà, il caposquadra, che lo tirava per un braccio e gli gridava con la sua vocetta stridula: “Vieni, patron, corri! Bila è caduto nella tramoggia! Corri, Bila sta nella tramoggia!” Lo ripeté tante di quelle volte che Torlin gli tappò la bocca con la mano, per farlo star zitto, e gli urlò addosso a brutto muso: “Va bene, piantala di frignare, ho capito, m’infilo un paio di braghe e vengo. Torna all’impianto!”

Guardò l’orologio. L’una di notte. Mentre guidava il suo pick-up a cento all’ora sulla pista sterrata dove a ogni curva Mol, il capocantiere, aveva fatto piazzare i cartelli col limite a quaranta, dentro di sé sgranava il suo rosario di bestemmie: “Bila, diocàn, razza di coglione! Per una volta che l’impianto gira, quel porcodio va a cascarci dentro, madonna puttana!”

Bila era il manovale più giovane della squadra, vent’anni sì e no. Era addetto a sgaggiare i massi che s’incastrano all’imbocco del frantoio, quando il dumper scarica e se le pietre s’ammucchiano dove lo scivolo stringe, vanno sbloccate con pali e catene d’acciaio. Nella foga di far leva sull’orlo del parapetto, doveva aver perso l’equilibrio ed era cascato dentro. Le cinghie di sicurezza certamente se l’era slacciate, perché con l’imbracatura addosso si fa più fatica a lavorare. “Testa di cazzo,” gli urlò contro Torlin, picchiando sul volante come se fosse la faccia di Bila. “Ora la paga!”

Arrivò alla rampa e salì al primario. I suoi erano già andati a prendere la gru in officina e stavano calando il cestello. S’affacciò. Bila era appeso al bordo inferiore dello scivolo, si teneva aggrappato con le mani all’orlo d’acciaio e agitava i piedi, sotto, scalciando a vuoto in cerca d’un appoggio che non c’era; e non la finiva più di gridare, mentre tre metri più in basso la pesante ganascia del frantoio batteva il ferro lenta e indifferente. Amarà, il capoturno, appena visto Bila scivolare aveva attivato il fermo d’emergenza e staccato l’energia all’impianto. Ma prima che le pesanti ruote di ghisa si fermassero – quelle che con la loro inerzia imprimono alla ganascia la forza di frantumare i blocchi di roccia – ce ne voleva di tempo. E quello intanto stava lì appeso che scalciava, scosso dalle vibrazioni delle masse eccentriche, e se avesse perso la presa… Mentre la gru saliva, i suoi compagni continuavano a dirgli, nella lingua loro, di non sprecare energie a dimenarsi, le risparmiasse per tenersi aggrappato, che a ogni gesto che faceva aumentava solo il rischio di finir giù… Però lui, là sotto, non dava retta, e s’agitava e scalciava più forte ogni volta che, abbassando la testa, vedeva sotto di sé quel buco nero aprirsi e chiudersi, macinando a vuoto in attesa di prenderlo.

 Ci volle quasi mezz’ora per far salire la gru e metterla in posizione, e ancora un quarto d’ora buono perché tre operai imbracati dentro il cestello si calassero nella bocca della tramoggia, scendendo sotto lo scivolo fino al livello del manovale. Fu un’operazione lenta, perché il gruista doveva calare il gancio piano piano e altri uomini della squadra guidare il cestello con le funi, che non urtasse le pareti di lamiera e non si ribaltasse buttando dentro anche gli altri. Ma alla fine lo raggiunsero, Bila, e l’afferrarono per la cintura e lo rovesciarono dentro, schiacciandolo contro il pianale del cestello per farlo star fermo, perché quello era in preda a una crisi isterica e si dimenava tanto che avrebbe finito per ribaltarlo.

Quando la gru lo posò, era più morto che vivo per lo spavento. Torlin non gli diede neanche il tempo di metter piede a terra, gli s’avventò contro e lo prese per il bavero: “Coglione!” Bestemmiò. “Testa di cazzo!” Gliene mollò uno dritto in faccia, un manrovescio che gli torse il naso. Poi lo trasse fuori dalla balaustra e prima che i suoi potessero fermarlo gliene mollò un altro e un altro ancora, lo buttò in terra e giù pedate, che lo rovesciavano tutte le volte che provava a tirarsi su.

Io arrivai all’impianto proprio in quel momento, mentre Torlin scalciava Bila (i guardiani erano venuti ad avvisarmi dell’incidente: era mio compito far l’ispezione e preparare il rapporto per la direzione) e mentre m’avvicinavo lo vidi nella luce dei fari, quante gliene dava; e poi i suoi neri attorniarlo, bloccarlo e trascinarlo via. Parcheggiai, scesi dalla jeep. Quando lo raggiunsi era già più calmo. Mi disse solo: “Non ce lo voglio questo stronzo all’impianto. Di’ all’ufficio del personale che me lo levino dai coglioni. Con me non ci lavora più. Fòra d’i ball!” Lo fece caricare sul pick-up, perché lo portassero in infermeria. Dissi loro d’andare a chiamare il dottor Keita, che gli desse un’occhiata. Scattai delle foto e mi feci raccontare da Amarà per filo e per segno com’era andata e presi degli appunti per la denuncia. Il manovale stava abbastanza bene, a parte lo spavento e la crisi di nervi aveva solo quel naso gonfio per le sberle di Torlin. Nel rapporto avrei scritto che se l’era rotto sbattendo contro le lamiere. Lo dissi, ad Amarà, e lui mi fece cenno che capiva, sì, ne avrebbe parlato con gli altri, era quella la versione giusta della storia, non c’entrava lo scatto d’ira del suo patron. Finii le mie note, risalii in jeep e me ne tornai al campo.

Torlin restò lì, all’impianto. Fece andar via la gru. Fece rimettere in moto le macchine, gli uomini ripresero posizione. E quando tutto fu ripartito, verso le tre di notte, e il pick-up gli tornò indietro dall’infermeria, stette ancora un po’ a guardarlo girare: i dumper arrivavano ogni tre minuti coi loro carichi di roccia, il primario lavorava a bocca piena, dai nastri d’uscita andavano a cumulo, come prima, cinque bei fiotti di frantumato pulito… Allora risalì in macchina e tornò al campo pure lui.

La pista sterrata che dal frantoio costeggia la cava, passa proprio accanto al villaggio di Bolom, quello della lite con Brusatti. E Torlin – chissà perché, va’ a sapere che gli scattò in testa – deviò dalla pista principale e ci passò dentro. Non so che aveva in mente, se cercava la neretta di cui s’era vantato Brusatti, o voleva semplicemente dare un’occhiata al posto dove quel maiale… oppure era ancora scombussolato per l’incidente, aveva la testa altrove e sbagliò strada… Fatto sta che l’attraversò, a cento all’ora, come guidava lui. Fregandosene dei cartelli che Mol – quel canchero – aveva fatto piazzare prima e dopo il villaggio, col limite a quaranta che non rispettava nessuno.

Era buio. D’un tratto dietro la sagoma scura di un cespuglio comparve un bambino. Un’apparizione giusto d’un attimo. Torlin vide distintamente il viso dai grandi occhi sgranati, illuminato all’improvviso dal fascio dei fari. Frenò. Un istante dopo sentì il colpo, leggero, come avesse urtato un oggetto molle. Fermò la macchina e tornò indietro. Indagò la laterite bruna della pista con la torcia elettrica da caverna che aveva a bordo, finché l’ampio ventaglio di luce gialla investì un corpicino magro, nero, che giaceva immobile.

Si dovette buttar giù dal letto il dottor Keita un’altra volta. I guardiani vennero a chiamarmi di nuovo, a dirmi che c’era stato un secondo incidente. Li raggiunsi in infermeria. Sulla barella, il bimbo aveva ripreso conoscenza. Aveva una brutta frattura esposta alla gamba destra e una ferita su un lato della testa. Avrà avuto tra gli otto e i dieci anni e la ferita alla testa era profonda, sanguinava. Il dottore si occupò di quella per prima, alla gamba avrebbe pensato dopo. Non c’era nessun altro al first aid, i due infermieri vivevano a Mamou, un’ora e mezza di strada, troppo lontani per mandarli a chiamare. E c’era bisogno di tenere il bimbo fermo e assistere il dottore mentre medicava, dovemmo farlo Torlin ed io. O meglio, il bambino lo tenne Torlin; io restai semplicemente a dare una mano, passare il disinfettante, le bende, aprirgli i guanti mentre li infilava…

Il dottor Keita fece un buon lavoro. Rasò i capelli attorno alla lacerazione e la medicò. Il taglio era profondo, metteva a nudo l’osso; ma pareva che la scatola cranica fosse intatta. Raschiò e pulì la superficie dura ed eliminò tutti i frammenti di vegetali e terriccio, prima di disinfettare con la tintura di iodio e richiudere i lembi della ferita e cucirne i bordi sovrapposti. Per tutto il tempo che durò l’intervento, il bambino si lamentava e le grosse mani sporche di Torlin lo tennero fermo, stringendolo con tutta la delicatezza di cui erano capaci, ai due lati del viso magro giù giù per tutto il corpo, chiuso come in una ganascia tra i due avambracci e i bicipiti abbronzati. Torlin si chinò sopra di lui, comprimendolo col busto contro il materassino della barella, per immobilizzarlo completamente mentre il dottore operava.

Quando il dottore raschiò l’osso, mi sentii male e dovetti uscire. Torlin era pallido come un cencio e mi parve che un conato di vomito salisse alla bocca pure a lui, ma lo ricacciò giù. Aveva uno sguardo mogio, colpevole, però molto concentrato. Fissava il bambino con la massima serietà, sforzandosi di controllare la sua forza e tenerlo immobile, cercando di non pensare né al suo stomaco né ad altro, e di non prestare ascolto al gemito intermittente, ripetitivo, che usciva da quella bocca infantile, una vocina puntuta che scavava in testa come un succhiello e non riusciva proprio a sciogliersi in pianto. Me ne andai, chiusi la porta.

Intanto, davanti all’infermeria s’era radunata della gente. S’era sparsa la voce dell’incidente e da Bolom erano arrivati gli uomini del villaggio, in cerca del bambino. Giunsero anche quattro militari del presidio di gendarmeria di stanza in cantiere, a indagare sull’accaduto; e fu un bene che ci fossero pure loro, perché quando si seppe che il bambino era dentro, ed era ferito, e l’uomo che l’aveva investito era dentro lui pure, gli animi si scaldarono. Si alzarono delle voci e vi furono delle spinte e quando gli uomini di Bolom cercarono di entrare a forza, i gendarmi intervennero alla maniera loro e ristabilirono l’ordine. Ma quelli di Bolom non si placavano. Un ragazzino del villaggio era stato investito, mezzo ammazzato da un bianco. E quelli volevano fargliela pagare. A caldo, laggiù era la reazione normale. Per fortuna c’erano i militari.  

Torlin assistette il dottor Keita per tutta la durata dell’intervento e solo dopo che l’operazione finì e vi fu la certezza che il bimbo sarebbe sopravvissuto, uscì a consegnarsi ai gendarmi, che l’arrestarono. Lo misero dentro per l’incidente, visto che aveva investito un bambino era loro dovere portarlo davanti a un giudice, a Mamou, nella cui giurisdizione ricadeva Garafiri. Ma l’arrestarono anche per proteggerlo, perché se l’avessero lasciato libero, quelli del villaggio sarebbero andati a prenderlo e gliel’avrebbero fatto loro, il processo.

Sicché Torlin passò il resto della notte dentro il container che serviva da cella, accanto al corpo di guardia della gendarmeria. Il container ospitava un altro detenuto, un ladruncolo che i gendarmi avevano pescato a succhiare gasolio dai camion in servizio nel turno di notte. L’uomo era seminudo, indossava solo un paio di slip sudici. Le sue jerrycan piene di carburante, il corpo del reato, erano ammucchiate lì accanto, per cui c’era un gran puzzo di nafta dentro il container. Il ladro era legato mani e piedi e aveva il volto tumefatto per la ripassata che gli avevano dato gli agenti. Torlin restò in cella fin dopo mezzogiorno, quando la direzione del cantiere intavolò negoziati coi gendarmi e col villaggio. Fu pagato un considerevole risarcimento al capovillaggio di Bolom e una cospicua mancia andò agli agenti, perché chiudessero un occhio e lasciassero perdere pure il loro, di processo. Fu liberato nel pomeriggio e riprese il suo lavoro all’impianto. Il turno di giorno, l’indomani, andò bene, l’impianto fece una buona produzione. Il bambino guarì. Ma d’allora in poi Torlin dovette stare alla larga da Bolom. Nonostante ci avesse fatto scavare un pozzo e costruire un dispensario, i suoi rapporti col villaggio s’erano guastati.


Le fotografie sono di Roberto Cavallini

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