Raoul Precht
Periscopio (globale)

Miracolo Vermeer

Tutti i capolavori di Vermeer sono in mostra ad Amsterdam. Un'occasione unica per ammirare un pittore misterioso che ha attratto semplici spettatori e grandi letterati. E che nelle sue opere nasconde il segreto dell'apparente incompiutezza

La prenderò da lontano: da quel suggestivo e drammatico passaggio nella Recherche proustiana, per la precisione in La Prisonnière (La prigioniera), in cui Proust narra la morte di Bergotte, un romanziere-tipo con il quale in parte s’identifica. Cito il passo in questione, con qualche taglio, nella traduzione di Giovanni Raboni: “Morì nelle seguenti circostanze: in seguito a una crisi, abbastanza leggera, di uremia, gli era stato prescritto il riposo. Ma poiché un critico aveva scritto che nella Veduta di Delft di Vermeer (prestata dal museo dell’Aja per una mostra di pittura olandese), quadro ch’egli adorava e credeva di conoscere alla perfezione, un piccolo lembo di muro giallo (di cui non si ricordava) era dipinto così bene da far pensare, se lo si guardava isolatamente, a una preziosa opera d’arte cinese, d’una bellezza che poteva bastare a se stessa, Bergotte mangiò un po’ di patate, uscì di casa e andò alla mostra. Sin dai primi gradini che gli toccò salire, fu colto da vertigini. (…) Alla fine, fu davanti al Vermeer, che ricordava più smagliante, più diverso da tutto quanto conoscesse, ma nel quale, grazie all’articolo del critico, notò per la prima volta dei piccoli personaggi in blu, e che la sabbia era rosa, e – infine – la preziosa materia del minuscolo lembo di muro giallo. Le vertigini aumentavano; lui non staccava lo sguardo, come un bambino da una farfalla gialla che vorrebbe catturare, dal prezioso piccolo lembo di muro. ‘È così che avrei dovuto scrivere, pensava. I miei ultimi libri sono troppo secchi, avrei dovuto stendere più strati di colore, rendere la mia frase preziosa in sé, come quel piccolo lembo di muro giallo’. Tuttavia, la gravità delle vertigini non gli sfuggiva. In una celeste bilancia gli appariva, ammucchiata su uno dei due piatti, la sua propria vita, mentre l’altro conteneva il piccolo lembo di muro così ben dipinto in giallo. Sentiva d’aver dato, incautamente, la prima per il secondo. (…) Un nuovo colpo l’abbatté, dal divano rotolò per terra, facendo accorrere tutti i visitatori e i guardiani. Era morto.”

Ci sono qui almeno tre elementi di un certo rilievo.

Il primo è l’estrema debilitazione del personaggio, le cui precarie condizioni fisiche corrispondono a quelle dello stesso Proust allorché, nel maggio 1921, si recò al Jeu de Paume a visitare una mostra di quadri prestati da musei olandesi e per l’ultima volta (li aveva già visti nel 1902 all’Aia) poté soffermarsi a contemplare la Veduta di Delft e gli altri due quadri di Johannes Vermeer ivi esposti, La lattaia e La ragazza dall’orecchino di perla. Proust, che nel biglietto con cui chiede all’amico Jean-Louis Vaudoyer di accompagnarlo alla mostra, si qualifica come già defunto (“…volete condurre questo morto che sono io e che si appoggerà al vostro braccio…”), si sarebbe accomiatato dal mondo appena un anno e mezzo più tardi, a poco più di quarant’anni.

Il secondo spunto interessante è il famoso “lembo di muro giallo”, che scatena la crisi di coscienza professionale di Bergotte, ma che nel quadro non esiste (o almeno non esiste così come lo descrive Proust). Molti esegeti e critici d’arte hanno cercato in seguito d’individuarlo senza troppo successo in diversi dettagli del quadro, giungendo alla conclusione che esso altro non sia che un esempio di quella sovrapposizione di stimoli visivi, chiamata anche da Gérard Genette “surimpressionisme”, che rappresentava una delle modalità operative di Proust e che arricchisce la tessitura della Recherche. Il lembo di muro giallo non c’è, ma potrebbe esserci, e in ogni caso (magari grazie alla combinazione di due particolari della tela) esisteva per Proust, il quale pur sbagliando, come peraltro in altre circostanze, ne ha fatto materia purissima del suo ricordo. Non mi soffermerò oltre su questo, anche perché posso rimandare il lettore a uno stimolante libretto di Lorenzo Renzi uscito nel 1999 per Il Mulino con l’indicativo titolo Proust e Vermeer. Apologia dell’imprecisione, che è tutto dedicato alla questione.

Il terzo elemento è il senso di fallimento che Bergotte/Proust prova di fronte alla perfezione del maestro olandese e che lo spinge a riconsiderare in termini negativi tutta la sua produzione, mentre la crescente consapevolezza della grandezza e dell’inarrestabile tenacia e precisione del pittore olandese gli provoca delle vertigini.

Sono le stesse vertigini che colgono assai più modestamente noi contemporanei, che in Johannes Vermeer vediamo, forse con maggiore superficialità, anche altre cose: il precursore della fotografia, il maestro degli effetti di luce, l’acribico miniaturista, l’ambiguo e talora indecifrabile descrittore di ambienti borghesi in cui sembrano succedere cose che sfuggono alla nostra comprensione.

Sarà forse solo casuale, ma è sempre da questa famosa Veduta di Delft che nasce nel 1842, con i primi studi entusiastici di Thoré-Bürger, l’interesse europeo per Vermeer, pittore fino a quel momento trascurato, considerato uno dei tanti onesti professionisti di quella Scuola fiamminga che aveva avuto i suoi inizi con l’età d’oro dei grandi artisti del quindicesimo secolo, dai fratelli Van Eyck a Van der Weyden. Non era difficile confondere Vermeer con i numerosi altri pittori di primo piano della sua epoca: si pensi solo che nel diciassettesimo secolo in Olanda si sono prodotte circa dieci milioni di tele, e che mettendo insieme la generazione di Rembrandt, nato nel 1606, e quella di Vermeer, che è del 1632, ci saranno stati almeno una trentina di pittori sufficientemente affermati.

Se ancora nel 2009 la retrospettiva di Vermeer al Museo di via del Corso a Roma non aveva fatto registrare picchi di affollamento, ben diverso è il caso oggi con la pubblicizzatissima esposizione al Rijksmuseum di Amsterdam, che continua fino al 4 giugno e che ha il grande pregio di presentare ben 28 opere di Vermeer sulle 37 a lui attribuite più o meno con certezza. Le tele – questo va riconosciuto ai curatori, compilatori anche di un accuratissimo catalogo – sono ben distanziate tra loro e posizionate in sale molto grandi, che ne consentono la fruizione anche nelle condizioni di affluenza ipertrofica a questi eventi che ormai ben conosciamo. “Vermeer,” scriveva Pietro Citati, “deve essere contemplato da vicino, millimetro per millimetro, tocco per tocco, nella quiete e nel silenzio…”: ecco, questo possiamo scordarcelo, ormai, ma ad Amsterdam qualche sforzo in questo senso almeno è stato fatto. Allestita in collaborazione con il Mauritshuis dell’Aia, che ha prestato (ma solo fino al 31 marzo) anche la celeberrima Ragazza dall’orecchino di perla, la mostra di Amsterdam si è avvalsa di un piccolo colpo di fortuna, ovvero le ristrutturazioni in corso alla Frick Collection di New York che hanno permesso il prestito di alcune tele altrimenti di difficile ottenimento (il Concerto interrotto, la Fantesca che porge una lettera alla signora, il Soldato con ragazza sorridente). Altre tre opere fanno già parte della collezione del Rijksmuseum (Stradina di Delft, La lattaia, Donna in azzurro che legge una lettera), mentre gli altri capolavori arrivano appunto dall’Aia nonché da Parigi, Francoforte, Berlino, Dresda, Londra, Edimburgo, Dublino, Washington e persino Tokyo. E ancora una volta sarà solo casuale, ma non un solo dipinto di Vermeer è oggi esposto stabilmente nella città natale, Delft.

“La ragazza con l’orecchino di perla”, 1665

Eppure, Delft per Vermeer è stata un universo intero. Così come Rembrandt non ha mai lasciato l’Olanda, accontentandosi di girare il mondo per procura tramite gli oggetti esotici che collezionava compulsivamente (e che ne hanno forse causato la rovina finanziaria), Vermeer non si è mai allontanato da Delft, all’interno delle cui mura ha costruito tutta la sua modesta carriera di pittore, diventando a più riprese maestro della locale Gilda di San Luca e godendo quindi di una certa considerazione. (Una carriera costruita con lentezza, peraltro: ché a quanto pare ultimava al massimo due dipinti all’anno, tanto che non divenne mai ricco con la sua attività, e che anzi alla sua morte la moglie, Catharina Bolnes, dovette dichiarare bancarotta.) Delft e i suoi abitanti sono anche gli unici soggetti della sua pittura; e se gli esterni, come ci insegna Proust, denotano una qualità cromatica impareggiabile, quello che oggi più colpisce di Vermeer è l’abilità di scolpire gli interni, con questa lama di luce che sempre li invade dal lato sinistro, illuminando i personaggi, gli oggetti, le carte da parati, che sono tutti resi con maniacale e convinta precisione. Si veda per tutti lo stupendo Geografo dello Städel-Museum di Francoforte, cui farebbe da contraltare l’Astronomo che il Louvre non ha purtroppo concesso. Nei quadri di Vermeer le sfocature si alternano a un’estrema precisione, e l’effetto può mutare a seconda del punto di vista assunto dallo spettatore. All’apparenza non c’è movimento, salvo nei casi in cui assistiamo all’esecuzione di un compito preciso, come avviene per La lattaia, davvero assorta nel suo lavoro, o l’intensa Merlettaia del Louvre, vero esempio di virtù domestiche. Per il resto, i (pochi) personaggi sono impegnati in conversazioni, o forse transazioni (La mezzana), o a volte perfino intrusioni e magari molestie di cui non sapremo mai di più. Nulla sembra muoversi; gli strumenti musicali, che appaiono con una certa frequenza, vengono suonati da interpreti che guardano altrove, di lato (Giovane donna seduta al virginale o la Suonatrice di chitarra), o non vengono suonati affatto (Fanciulla con flauto); il concerto è spesso interrotto da qualcuno o da qualcosa. I bigliettini e le occhiate allusive che i personaggi si scambiano, i calici di vino che vengono indotti a bere davanti a noi, curiosi e indiscreti spettatori, stanno lì a significare altro, rappresentano un’apertura su dinamiche psicologiche e sociali forse intricate e sicuramente sfuggenti. E a scombinare le carte c’è anche qualche fantasma o possibile revenant: si pensi solo alla Suonatrice di liuto.

Della storia con la S maiuscola nulla sembra arrivare a Vermeer, poterne sporcare gli immacolati interni: e sì che il Seicento è stato il secolo della grande espansione olandese attraverso i commerci, con la fondazione nel 1602 della Dutch East India Company, gli scambi con i paesi baltici, la Turchia, la Persia, il Brasile, la nascita – favorita dal sultano turco, che ne era appassionato – della “mania dei tulipani” e il relativo aumento dei prezzi per questo fiore (un bulbo poteva valere all’epoca un’intera casa). Ad Amsterdam nasce la seconda borsa al mondo dopo quella di Anversa, e il porto è il più grande di tutta l’Europa settentrionale. La borghesia si sostituisce gradualmente alla Chiesa e all’aristocrazia anche in qualità di committente e richiede ai pittori in auge una descrizione quanto più possibile particolareggiata del proprio modo di vivere e anche (perché no?) dei propri sogni espansionistici. Ma il Seicento è anche il secolo in cui vengono inventati (non so in quale ordine) strumenti complessi quali il termometro, il barometro, il telescopio e il microscopio: e questi salti in avanti tecnologici in Vermeer, invece, si avvertono benissimo, non foss’altro che per il ricorso alla camera oscura e alle sue lenti, per gli effetti ottici, quasi illusionistici, che persegue e raggiunge, per la cristallina, “scientifica” coerenza della pennellata.

Si diceva prima di Rembrandt, pittore che talora si è voluto contrapporre a Vermeer con una polarizzazione che farebbe del primo – si pensi solo alla Ronda di notte – un pittore sanguigno, rutilante, estroverso ed emotivo, e del secondo un artigiano attento, prudente, distaccato e controllatissimo. Le cose stanno forse più nei termini in cui nel nostro Barocco ci siamo abituati a considerare due mostri sacri come Bernini e Borromini: non antitetici, ma complementari, ciascuno legato a una sua coerente poetica che ne rafforza la grandezza. Una sola cosa è certa, e questo vale anche per Rembrandt e Vermeer: ed è che di entrambe le figure non potremmo più fare a meno.

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